Appunti e riflessioni a partire da “Tipi bizzarri” di Amalia Guglielminetti

Con molta insofferenza sono giunta alla fine della lettura di Tipi bizzarri, raccolta di novelle di Amalia Guglielminetti pubblicata per la prima volta nel 1931 da Arnoldo Mondadori e riedita nel 2019 da Rina Edizioni. Quando, dallo stand della casa editrice al Salone di Torino di qualche anno fa, l’avevo selezionata preferendola a Matilde Serao, Carolina Invernizio e Paola Masino – ricordiamo che il progetto di Rina è proprio quello di, come noi Ortique, “riscoprire e recuperare figure ‘dimenticate’, riportando alla luce l’esperienza e il contributo di quelle donne dalla voce coraggiosa, estromesse dal canone letterario e obliate” –, mi aveva attirato la presentazione del risvolto di copertina con il suo riferimento alla “lente schernitrice dell’anticonformismo e dell’ironia”, che altro non sarebbe se non la capacità di osservazione “veramente rivoluzionaria” e “originalissima” dell’autrice. La raccolta, in questo, non si smentisce: è davvero uno sguardo impietoso quello che si posa sui personaggi delle novelle, esponenti di quell’élite fatta di piccola nobiltà provinciale, ricca borghesia dell’industria e delle professioni liberali ed ereditieri delle più diverse provenienze che, grazie alla disponibilità delle proprie finanze, poteva permettersi, nell’Italia pre-repubblicana, di riempire il proprio tempo di dedizione alle arti e corse in automobile per l’aperta campagna, ricevimenti e lunghi mesi di vacanza in hotel, corteggiamenti e doppie vite. Alle proprie letterarie ‘vittime’ la scrittrice torinese non risparmia la messa a nudo di meschinità e doppiezze, tutte rivolte al soddisfacimento di qualche interesse materiale o al compiacimento di piccole e grandi vanità (quello che oggi chiameremmo ‘narcisismo’). Perfetta ricaduta semantica di questo preciso taglio dell’analisi psicologica che riserva loro è, ad esempio, la novella “Il sacro anello indù”, che dispiega un intero e modulato ventaglio sia di azioni, dal metaforico “recitare” all’assoluto “mentire” al derisorio “gabbare”, sia di sostantivi, dall’atto simulativo e inventivo della “finzione” all’intenzionalità falsificatrice della “bugia” e della “menzogna” (dissimulata, quest’ultima, sotto le spoglie di una “spiegazione verosimile”) fino all’induzione in errore apertamente macchiata di frode e malizia dell’“inganno”; il tutto senza che i protagonisti (ma anche i comprimari) intendano scalfire per un istante il mantenimento delle apparenze di un’“onesta casa coniugale”.

Osservatrice minuziosa e descrittrice meticolosa fu dunque Amalia Guglielminetti narratrice, e non solo di ‘tipi’ umani di ambo i sessi, ma anche di oggetti e ambienti, capi d’abbigliamento e articoli d’arredamento, gioielli e ogni sorta d’ornamento (come già osservato da Clelia Lombardo nella sua recente lettura del romanzo La rivincita del maschio), con un’attenzione agli elementi decorativi così caratteristica dello stile liberty primonovecentesco. Non è quindi ascrivibile alla perizia stilistica della nostra, né al suo tratto così distintivo, così tagliente più che graffiante, così ammirevolmente spietato, l’insofferenza provata e dichiarata in apertura da chi scrive, quanto piuttosto a quell’“ironia” promessa ma disattesa. Perché i feroci ritratti di Tipi bizzarri, più che a un’arguta incongruenza fra ciò che viene detto a proposito di personaggi e situazioni e ciò che davvero il narratore pensa di loro (e spinge il lettore a pensare), rimandano a un cinismo nichilista che non lascia scampo, non un pertugio di speranza in un qualche sentimento che radichi la propria esistenza un po’ più al fondo della superficie. Ciò che trasmettono è, in fondo, disincanto nei confronti dell’ambiente sociale qui tratteggiato, degli esseri umani (donne e uomini) che lo popolano e delle loro relazioni reciproche, sorrette in maniera pressoché esclusiva da convenzioni che nessuna verità può aspirare a scalfire, come dimostra il secco dialogo che conclude “Le distrazioni di Mimì”. Di altro segno e godibilità, pur nella comune schiettezza di analisi psicologica, sono l’umorismo di certe singolari e brillanti trovate negli sketch di Il pigiama del moralista (1927) o la metafora introspettiva di una novella come “Il ritratto a pastello”, in Le ore inutili (1919). In quest’ultima, la protagonista Ottavia e il suo rifiuto di accettare le “vicende più comuni della società moderna” (ossia, nelle parole del suo amante Dino, l’esistenza di “infiniti uomini che posseggono insieme una moglie tollerata e un’amante adorata, senza essere costretti a rinunziare all’una o all’altra”) riecheggiano l’analoga, ferma volontà di autodeterminazione a discapito di norme sociali rigidamente prestabilite propria dell’autrice stessa.

Ma allora perché non cessa di avere valore la lettura di Amalia Guglielminetti oggi? Perché dovremmo leggerla? E che cosa dovremmo leggere di lei sola, se volessimo oltrepassare quell’unica opera – divenuta tale solo postuma e non interamente sua, e pure sbilanciata nel protagonismo secondario in essa lasciatole – che superò lo stravolgimento del panorama editoriale e critico italiano seguito alla seconda guerra mondiale, quale è l’epistolario con Guido Gozzano (Lettere d’amore, pubblicato per la prima volta dieci anni dopo la scomparsa della scrittrice torinese e riedito nel 2019 da Quodlibet)? Il bel saggio di Alessandro Ferraro Singolare femminile. Amalia Guglielminetti nel Novecento italiano (2022) – opera di critica letteraria e ricostruzione storica pregevole e meritoria, di piacevolissima lettura – risponde, nell’introduzione che è un “ritratto veritiero”, con argomenti più che convincenti: “Qui si valorizza la singolarità di Amalia Guglielminetti che si sottrae alla subordinazione e al paragone, che sta sola eppure al centro di un reticolo di relazioni con mezza Italia delle arti e delle lettere” (p. 22). Il collega mi perdonerà la sfacciataggine di aver reso graficamente questo reticolo, da lui ricostruito con dovizia di particolari nel libro e riassunto nell’introduzione; l’intento è quello di fornire una dimostrazione visualizzabile a colpo d’occhio delle possibilità che una ricerca rigorosa e seria riserva a quella che lui stesso definisce la “riapertura del canone”, non solo e non tanto per proporne un alternativo ‘contro-’, quanto piuttosto per far emergere una realtà esistente e documentabile che con troppa fretta è stata archiviata fra il ‘non degno di nota’, in virtù di criteri che si pretendono universali e indiscutibili mentre risentono, come ogni fatto umano, delle precise circostanze che li hanno prodotti. Visto, allora, che le circostanze odierne sono favorevoli in questo senso, guardiamola, Amalia Guglielminetti (e le sue colleghe, e le antenate e figlie e nipoti), nel contesto del campo letterario in cui visse: ce n’è di che costruire un intero corso di Letteratura italiana contemporanea.

Libera interpretazione grafica di “Ritratto veritiero” di Ferraro (2022, pp. 7-25), da cui i contenuti sono tratti (fatto salvo l’appunto a matita, che è personale ipotesi dell’autrice del presente contributo).

Quanto al ‘che cosa’ dovremmo recuperare alla lettura, se di un romanzo e di alcune novelle già si è detto sul nostro blog, e si è accennato al citatissimo epistolario, non resta che ripartire dalla poesia, in cui davvero Amalia eccelse e che scelse per far sentire la propria voce di donna: come afferma Ferraro, “Amalia Guglielminetti […] volle darsi una voce e darla alle donne che non la avevano, con l’autocoscienza di colei che rifiutò un destino prestabilito” (p. 16). ‘Accommiatiamoci’, dunque, dalla scrittrice anticonformista ed emancipata, dalla poetessa fieramente autonoma, ascoltandone proprio la voce:

LA MIA VOCE

(da Le seduzioni, 1909)

La mia voce non ha rombo di mare
o d’echi alti tra fughe di colonne:
ma il susurro che par fruscìo di gonne
con cui si narran feminili gare.

Io non volli cantar, volli parlare,
e dir cose di me, di tante donne
cui molti desideri urgon l’insonne
cuore e lascian con labbra un poco amare.

E amara è pur la mia voce talvolta
quasi vi tremi un riso d’ironia,
più pungente a chi parla che a chi ascolta.

Come quando a un’amica si confida
qualche segreto di malinconia
e si ha paura ch’ella ne sorrida.

© Alice Girotto

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