#PodcastFest – Francesca Favaro legge Angelica Palli

Angelica Palli (1798-1875) è stata una scrittrice e patriota di origine livornese. Di famiglia benestante, ebbe l’opportunità di studiare e di comporre poesia sin dall’adolescenza. Nell’arco della propria vita ha pubblicato opere in prosa, novelle e altro genere di testi, mossi per lo più da un’ispirazione civile che fu parte integrante della sua esperienza politica. Collaborò, inoltre, anche ad alcune riviste, tra cui la fiorentina «Patria». Per un profilo completo si rimanda al sito del SIUSA.

Il racconto storico Elsa, edito per la prima volta nel 1874, ha visto la sua ripubblicazione con la curatela di Francesca Favaro, e la prefazione di Patrizia Zambon, studiose e docenti di Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Padova; il volume è uscito per la casa editrice Padova University Press, collana di Italianistica.

Pubblichiamo l’incipit.

***

Nell’epoca in cui Pisa ricca, popolosa e considerata come una delle primarie potenze d’Italia, pur si avvicinava al giorno che dovea annientar la sua gloria, e ridurla a non poter più conservare l’indipendenza; in quell’epoca funesta di odi mortali tra Italiani e Italiani, sorgeva sulla vetta di Lemone (una delle più alte dei colli pisani in vicinanza del mare) un monastero cinto da foltissimo bosco; da una parte si appoggiava al monte dalla cui sommità era poco lontano, godeva dall’altra l’aspetto del mare, e in faccia gli stavano le colline, le valli, il piano, e Pisa con tutta la sua pianura, e i monti che le stanno dietro, e chiudono maestosamente la scena.

Livorno non era che un meschino castello! Porto Pisano era ingombro di navigli, e si lavorava indefessamente a costruirne dei nuovi, perché i patrizi, e il popolo accecati dall’odio contro Genova avevano risoluto venirne all’estrema prova in una battaglia marittima. La flotta era quasi pronta, ogni cittadino aveva concorso spontaneamente ad equipaggiarla, la gioventir, infiammata d’ardor guerriero, anelava il momento di salire le navi.

L’entusiasmo era al colmo, i templi echeggiavano di preghiere, gli altari erano carichi di offerte, i fratelli chiedevano a Dio la distruzione dei fratelli, e nei templi di Genova i medesimi voti di fratricidio s’innalzavano al cielo! Così le sciagurate genti d’Italia prepuavano la propria rovina, i trionfi degli stranieri, e l’obbrobrio della loro posteritàr. Era notte, il vento sibilava fortissimo tra i rami delle antiche querce, il mare mandava un sordo muggito… e le sacre vergini di Lemone oravano genuflesse appiè de1la divina immagine della madre del Redentore, chiedendo anch’esse la vittoria di Pisa, perché la repubblica avea ordinato queste preghiere a tutte le comunità religiose. Ad un tratto si odono fortissimi colpi alla porta; la badessa atterrita domanda che si chieda, chi tubi in ora si importuna la quiete del chiostro; una voce imperiosa: «Aprite» risponde «è il conte di Donoratico che chiede di parlare alla madre del monastero». A quel nome venerato e temuto, le porte si spalancano; il conte scende allora da cavallo, impone agli uomini di arme che lo accompagnano di aspettarlo nel cortile esterno, ed entra nel parlatorio seguito da una giovinetta che pare abbia appena la forza di reggersi in piedi.

«Voi sapete» egli dice, volgendosi con leggero inchino e alla badessa, «se ho mai trascurata la protezione di questo chiostro; mia mercé i vostri possessi si estendono, e i danni della guerra vi rimangono ignoti. Da voi esigo la prima volta un segno di gratitudine. Questa fanciulla è la mia unica figlia; essa ardisce mostrarsi restia all’obbedienza, ricusa uno sposo offerto dalla mano paterna, e nutre affetti che io voglio ignorare per non vedermi costretto a severamente punirla: io ve I’affido: rimanga fra voi finché non abbia fine la guerra con Genova, e guai se riceve messaggi, se vede il viso di un uomo, se si scosta di un passo da queste mura. Se Pisa trionfa ed io vivo, tornerò a prenderla per condurla alle nozze che sono ora ritardate, ma sempre irrevocabilmente risoluto; ma sia Pisa vincitrice, o sconfitta, se io non ritorno giuratemi che appena ricevuto l’avviso della mia morte voi la costringerete a prendere il velo». La badessa esitava a rispondere; «E che» gridò fremendo il conte, «la serbereste al talamo di un Genovese? il mio sangue si unirebbe a quello degli esecrati nemici della mia patria? No, mai! giurate per la sacrata immagine della Vergine, giurate di eseguire quanto vi chiedo, o trascinerò costei in altro asilo, e voi proverete tutto il peso del mio sdegno!…».

(pp. 39-40 del volume citato).

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