#PodcastFest – Jessy Simonini legge Violette Leduc, da Thérèse e Isabelle

Violette Leduc (1907-1972), autrice francese molto prolifica fino alla sua morte, fu ben nota nell’ambiente di Maurice Sachs, Sartre, Cocteau, Genet e di Simone de Beauvoir, anche sua “promotrice” nonché prefatrice del romanzo (autobiografico) forse più famoso, La bastarda, uscito in Italia nel 1965 per Feltrinelli. Alcune delle sue opere sono ora ripubblicate dall’editore Neri Pozza.

Quando scesi nella sala studio, trovai una busta nel mio banco. Mi sedetti al posto di Isabelle perché non avevo lezione, contemplai le macchie d’inchiostro sul suo banco. Alcune alunne studiavano nella luce chiara del nuovo giorno. Quando mi mettevo la mano sul cuore, la busta bianca fremeva, la scrittura di Isabelle sussultava. Rimandavo la lettura, leggevo il libro di fisica, lavoravo all’interno della mia corazza di pigrizia. Il sole mi tentava, il riflesso d’oro illuminava le mie mani; le voci dottorali dei professori che mi giungevano dalle finestre aperte non avevano piú le risonanze abituali dell’inverno.

Dateci i vostri brandelli, stagioni. Saremo le vagabonde dai capelli laccati dalla pioggia. Vuoi, Isabelle, vuoi venire a vivere con me sull’orlo di una scarpata? Mangeremo le nostre croste di pane con denti di lupo, sapremo trovare il pepe nella burrasca, avremo una casa con le tende di pizzo, e passeranno le roulotte dirette alla frontiera. Ti spoglierò nei campi di grano, ti farò dormire nei covoni, ti coprirò nell’acqua sotto i rami bassi, ti curerò sul muschio delle foreste, ti prenderò nell’erba medica, ti isserò sui carri di fieno, mia donna carolingia.

Scappai dalla sala studio, lessi la sua lettera nei gabinetti:

«Recupera le forze, dormi dove puoi, non sprecare energie, pensa alla notte che deve venire, pensa a noi questa sera».

Mi attorcigliai la catena dell’acqua attorno al collo, ogni anello che baciavo era una vertebra di Isabelle, strappai il biglietto e lo buttai nel vaso. Le nove e un quarto. L’orologio del cortile principale segnava un tempo divino, diverso da quello miserabile delle aule.

La copertina di carta del mio libro di fisica si staccò, il mio portamine rotolò sotto il calorifero: tutte le cose di cui volevo liberarmi mi sfuggivano. Alcune esterne aspettavano nel corridoio l’inizio della seconda ora di lezione, le vedevo andare e venire dietro la porta a vetri. Loro non amavano: la loro spigliatezza e la loro indifferenza mi opprimevano.

«Parlano con te» mi disse un’allieva.

Dormivo durante l’ora di geografia.

«È stata male» disse l’allieva. «È svenuta nell’ingresso. Non si sa cos’abbia».

Mi riaddormentai.

All’ora di geografia seguì quella di filosofia, durante la quale continuai a sonnecchiare. Undici e venticinque, undici e trenta, undici e trentacinque. Vedevo il nostro incontro sotto l’angolazione generosa di quelle undici e trentacinque. Il mio risveglio era come quello di una sentinella indisciplinata. Mi incipriai sotto il banco, nello specchietto da tasca osservavo ciò che sarebbe piaciuto a Isabelle e ciò che non le sarebbe piaciuto. Suonava una campanella, le alunne gridavano, avevo un’idea.

«Sí, due rose… Due rose rosse. Va’ dal miglior fiorista…»

«Quanto grandi?» domandò l’esterna.

«Le più belle che ci sono. Sí, se puoi: per un professore. Annusale prima di prenderle. Delle rose rosa preferibilmente».

«Stai tranquilla» disse l’esterna, «puoi contarci».

Altre esterne mi frustavano la faccia con le sciarpe, i guanti; mi spingevano, mi trascinavano verso l’uscita proibita. Tornai indietro: avevo qualcuno.

In Violette Leduc, Thérèse e Isabelle e La donna col renard, trad. ita di Adriano Spatola, Milano, Feltrinelli, 1969.

Per un profilo completo di Leduc si rimanda ai lavori di Margherita Giacobino e Eleonora Tarabella, nonché agli studi di Carlo Jansiti.

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