da Poesie in diesis di Livia De Stefani (ita/eng)

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Notturno n. 4

Non morirò. Vivo ancora. Ancora di te
del tuo profondo sonno fra le braccia dell’altra.
Ti odio. Nell’odio io incendio foreste
più fonde di quelle d’amore.
Al lume di fiamme vermiglie m’inoltro
nel fuoco vestita dei miei capelli.
Voluttà rinnovate, interminabili saziano
le affamate notti, alzano maree
fra le sponde dei giorni.
Non muoio. T’inseguo ti trovo ti schiaccio
e mi succhio il tuo sangue e lo sputo.
È amaro il tuo sangue, dà sete, dà sete.

*

Die – I will not. I live on still. Still on you
On your deep sleep in the arms of that other woman.
I loathe you. In loathing I set ablaze forests
deeper than those of love.
By the gleam of vermilion flames I give myself
to the fire wearing only my hair.
Endless voluptuous pleasures, tasted again, again, sate
the famished nights, flood tides
between the shores of the days.
Dying – I am not. You − I follow you find you crush you
Suck up your blood − spit it out.
Bitter, your blood − makes me thirst, thirst.

translated by © Angela Graham (Freelance TV Producer/Director, writer and translator)

podcast version by © Nandi Jola (South African born poet and writer based in Ireland):

The protagonist, facing with a loving betrayal, wishes to enter the fire that destroys but renews. In the fire, she will found forests “deeper” than those of love, because the strenght of destruction and regeneration of the fire are stronger than everything. These are ideas conceived in the light of Livia De Stefani’s beloved philosopher Heraclitus. She won’t die, the opposite: in the fire of All, it will be possible to find the blood of the beloved and suck it, because in the fire ‘Everything is One’, and it will be bitter blood to give new thirst, thirst for something else, for a new life – it seems at least so at the end of the poem. It comes to mind Dido who throws herself into the fire for the abandonment of Aeneas, or the melodramatic character Didone abandoned by Metastasio. In the first verse, we have a broken rhythm contradicted by an enjambement. There is a climax in the crescendo ‘I follow you find you crush you’, alliteration in the italian ‘suck’, ‘blood’ and ‘spit’ (succhio, sangue, sputo) and repetition in ‘thirst’; an iteration that gives intensity to the action.

© F. C. Fiorentin

***

Sicilia

Ammantata di viola
come per orgoglioso lutto
di remota tragedia, Sicilia
mi attendi. E mi appari
eretta sull’arco del mare
a mirare dagli ovati tuoi occhi senza sguardo
il mio nuovo migrare alle tue sponde.

Non i dorici templi librati
con ali di pietra sull’orlo di messi e ginestre,
non le conche lucenti
fra il cupo di foglie dei frutti solari,
non i colli schiumosi di mandorli ulivi,
non l’odore del lauro e di rose
ti muovono arcano sorriso sul labbro
composto in austero disegno.
Ma suprema delizia
del tuo essere grembo al muggito
del superstite sangue del mondo
che ancora rigurgita con sovrano splendore
dalla bocca del tuo vulcano.

*

Lochicello, com’era

Gigli rosa di Lochicello.
Fiorivano per san Michele.
In due schiere, lungo il viale tagliato
nel folto di grilli e cicale.
Il viale vestito di reti dal lento
migrare dei brividi
nel fogliame dei mandorli.
Esilissima erba di primo autunno
era luce fra il nero dei gambi
che sprizzavano in aria quel rosa
di profumo di alga.
Non si coglievano, non erano
gigli da cogliersi. Ceri, dicevano
le donne, erano ceri accesi
in onore dell’arcangelo armato di spada.
Ardevano al tempo di vendemmia
e del gioco di lampi a settentrione,
sopra l’arco del golfo.
Vergini, dicevano, forse erano le vergini.
Passato l’arcangelo, il ventinove,
si spegnevano insieme sul nero dei gambi.
Poi sul fare della luna d’ottobre
ingrossavano un baccello di carta velina.
Dentro c’era il seme dell’arcangelo,
quelle perle come di mare, rotonde
e trasparenti i colori dell’alba.
Si coglievano e sgranavano in grembo
e con l’ago ed il filo facevano collane.

*

Il Tamigi, da Greenwich a Londra

Nere fauci dei docks, artigliate zampe dei moli
che sembrano di fiere all’agguato attendono
ai lati del fiume l’arrivo di prede:
chiatte e vapori pingui di mercanzie
chiatte e vapori che in lente processioni
colme di pellegrini scalzi
giungono ai sacri luoghi d’attracco
intonando roche salmodie di sirene dinnanzi
agli antri di arsenali circonfusi
di grassi gabbiani.
Dondolanti dai becchi d’infaticabili gru
misteriose offerte votive trasvolano
dalle tolde dei navigli ai sagrati dei docks
diffondendo nell’aria sentori di spezie:
zenzero pepe cannella zafferano.
Vagano cigni ingialliti lungo sponde di giunchi
riversi su iridescenti sciarpe di nafta impigliate
ai loro gambi piegati dall’impietosa
sferza delle risacche.
Sovrastante alle strida di argani e pulegge
con suono di corni da caccia maschie voci
incrociano tra i bastimenti e i moli
richiami di allerta.
Danzano sulla corrente monete di sole sfuggite
a sacche di turno scomposte dal vento.

Il London Bridge è sipario ad altro mondo
spaccato dal medesimo fiume come frutto
maturo di melograno a primo autunno.

*

Vidi dal treno

Vidi dal treno un’alta casa nuova
sola a specchiarsi coi pioppi nel fiume.
Strazio mi prese d’esser adulta e desiderio
m’avvolse: di amarene e di voci infantili
a mazzolini nel canto del girotondo.

Ancora vibra a quadretti sul fiume
l’anima che lasciai alle finestre
dell’alta casa ignota.
A quelle sue finestre tutte accese
nel primo violetto della sera
per una invisibile festa o forse
in onore del mio compianto di me.

*

Queste nostre parole

Sono, queste nostre parole
lingue di sole danzanti secondo
il capriccio dell’aria in un boschetto di bambù.
E sono anche foreste che si dipanano
in fili di ragno e sono scale di Giacobbe
erette a sfondare nuovi cieli ricolmi
di arcangeli piumati, sono chiavi d’accesso
ai sotterranei dell’essere ove ancora mugghiando
turbina il caos primordiale tutt’intorno all’immoto
triangolo del mistero e silente rotola
la sfera del vero nelle direzioni multiple
che pure conducono al medesimo punto
il punto in cui l’ombra e la luce
hanno un unico significato e i suoni
una identica eco.
E sono, queste nostre parole
cerchi d’eternità liberati come vacue
aureole sulle nostre esistenze impigliate
nel cimitero della morte.
Nel suo rosso stormente pennacchio che tutte
le fascia e disperde come la notte il giuoco
delle lingue di sole meridiano
nel tremulo folto di bambù.

*

Lamentazioni

Inseguendo memorie fugaci
di predominio avanzano
(redivivi dinosauri voraci
d’illusorie pasture) i deserti.

Gridano nelle foreste tropicali
le seghe elettriche in coro
agli abbattuti alberi regali
requiem per l’aria, loro figlia.

Falciano nella volta celeste
aerei di linea e di guerra
sterminate messi d’ossigeno
destinate alla vita della Terra.

Privi di mari pescosi
gabbiani urbanizzati
s’adunano rissosi
intorno a cloache e immondezzai.

Trasfondono le piogge alle sorgive
acque i veleni fumiganti
da ciminiere, e dai campi
quelli secreti dai diserbanti.

Gridano dai litorali
aiuto uccelli invischiati
nel catrame con l’ali
impotenti alla fuga.

Nelle selve di antenne
della televisione, guarda:
non un’ombra di penne
non un nido né un uovo.

Nelle piazze siringhe insanguinate
attendono il vento per giocare
a rimpiattino con le abbandonate
spoglie del quotidiano.

Come da motori ingrippati
escono dalle bocche dei ragazzi
interiezioni in luogo di pensieri,
monosillabi inerti, smorti iati.

Come greggi rognose
corrono i fiumi al mare
con velli di spume velenose
fra rive fiorite
di barattoli.

Ridono i ratti alla vista
del mondo che schiude le sue porte
alla lor fame di conquista
d’ogni sua semenza e radice.

Abbassata la fronte
sul limbo impietrito
sogna il rinoceronte
il rombo del diluvio.

*

Racconto primaverile

Nel breve tempo dell’alba timorosa la piazza,
discosta la cinta di altissime case
è fatta più grande, riposa.
Un silenzio di chiesa scende dall’aria verde,
dalle finestre nere di sonno e transita
leggero sulla sua faccia affondata
fra i pallori dei muri.
Tu ed io conosciamo quest’estasi breve
d’intonaci, selci, rotaie:
il cielo si fascia d’opale e turchese
si lascia toccare da tetti e terrazzi
si fa cosa nostra, speranza.
La brezza attraversa la piazza lasciando
alla polvere odore di giovinezza.
Allacciati come nel letto bianco
i nostri corpi nudi si affacciano
al davanzale di pietra.
Cercano gli occhi nostri il levante
e le guance, le braccia il suo fresco respiro.
Svuotata dall’enorme stanchezza d’amore
la nostra carne pesante è pronta a volare.
Le palpebre grinze di sonno si rialzano,
tutta seta, sulla vergine chiarità che traluce
dagli aghi dei pini cresciuti in mezzo all’asfalto.
Il nostro amore si sganci dai corpi nudi,
lo vediamo scorrere sotto di noi
bianco ruscello tra le rive di altissime case.
Per poco: il tempo di saltellare
sui marciapiedi della piazza nel turchese
che già s’alza veloce a svaporare
verso i tetti e i comignoli.
Allora l’amore nostro come
colomba al frumento ritorna al davanzale
dove i corpi nudi lo attendono
in quieto abbandono.
Ed è così vasto, slargato dal rapido abbraccio
all’aurora, che subito i corpi pervasi
di gelosa beatitudine si staccano ora
dalla finestra per prolungare
nei sogni l’incanto di fuori.
Rientriamo. Io appoggio la testa sulla tua spalla
e tu la bocca sui miei capelli.
Bisbigli: dormiamo. E il tuo piede avvicina
il mio che già dorme, lo chiama lo accosta
perché nulla di noi sia distante.
Subito il sonno ci prende, ci avanza
corpo e anima, lievi, oltre il recinto
della nostra stanza. Nel chiaro profondo silenzio
che dianzi ci parve di vetro soffiato
e adesso s’è infranto e ingrigito nella piazza
che la nostra finestra chiusa respinge.

*

Racconto autunnale

La nostra casa è sempre là, sul mare,
fra i pini ed i carrubi ora cresciuti
per profumarci il vento.
Varcandone la soglia, non più amanti
ma sposi ci sentimmo: quieti e attenti
alle piccole cose.
Alitavano i mobili fragranze
e le mura ricordi. Di confetti
di ideali stagioni, di bambini.
Provvisori non più. Saldi e concreti ci sentimmo,
legati da un passato ch’era il nostro presente.
Nel letto apparecchiato con i lini
simile ad un altare consacrato,
puri ci addormentammo.
Fiduciosi nel tempo avanti a noi.
Era pur breve ma sembrava eterno:
gonfio di primavere estati autunni
quella notte d’inverno.

Destandoci, al mattino c’era il sole.
E il mare accoccolato tutt’intorno
alla nostra collina.
A colpi regolari gli operai
martellavano l’aria cristallina
curvi sopra la roccia da scalcare
nello scabro giardino.
Con sguardi cautelati accarezzammo
ad uno ad uno i nostri tigli alberelli.
Erano l’ombra fresca pei nipoti
fresca ombra agli agosti.
Custodivano cibi campagnoli
le pentole e i tegami di coccio.
Socchiudevamo quei coperchi, fieri
del nostro nutrimento e del suo odore.

Lentissimo era il transito dell’ore.
Tentammo d’invitare dentro casa
un canino randagio. Volevamo, anche lui,
farlo antico nel cuore.

Rotolarono i giorni: quattro in tutto:
tondi e perfetti come quattro cerchi
su di un piano di marmo.

Sono sola da ieri. Ma forse da sempre.
Fuori la tempesta morde gli scogli lotta
con gli ulivi sbatte contro i carrubi.
Tu gioivi, forse, del ritorno in città.

La casa sembra immensa, il giardino piccino.
Sono sola. Ma l’eco di quei giorni
che trascorremmo uniti reca ancora
doni imprevisti. Ecco che sento
muover passi di bimbi per le stanze
là dove sospinte dal libeccio
corrono foglie secche.
Friggono padellate nuziali
dietro ai vetri percossi dalla pioggia,
odo risa cordiali nei rimbalzi dell’acqua
che s’ingolfa e gorgoglia nelle gole delle grondaie.
Eppure è vero, un canino randagio
mi chiamò dalla furia della notte. Implorava
con umiltà e pazienza il rifugio.
E io non lo accolsi. Forse per timore
che aprendo la vetrata sul giardino
la tempesta in tenuta di gran gala
trascinasse con sé al suo negro festino
la mia illusione ferma e disperata
d’essere ancora amata. Ancora.

Livia De Stefani, da Poesie in diesis (Roma, Ianua editore 2002).

Ascolta il podcast:

*

Puoi trovare le raccolte poetiche di Livia De Stefani in alcune biblioteche italiane qui e qui

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