Ph Cred Clelia Lombardo
#letturefuoricatalogo una rubrica che si propone di presentare testi difficili da reperire o non più ripubblicati. Il primo volume che abbiamo letto insieme è stato Poesie (Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1985) di Marta Fabiani. Continuiamo con la lettura del racconto lungo Il Faggio (Neri Pozza, 1946), di Lea Quaretti. Ai luoghi dell’infanzia dell’autrice sono dedicati Il Faggio e gli altri racconti lunghi presenti nella raccolta postuma curata e voluta da Neri Pozza, in ricordo della moglie scomparsa da pochi mesi. Tutti accomunati, come sottolinea il titolo, dalla stessa ambientazione, il paese natale della scrittrice.
Ogni mese leggeremo un brano da Il Faggio, proponendo il testo e una lettura audio.
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Lea Quaretti (1912-1981) nacque a Rigoso, in provincia di Parma, nel 1912, si trasferirì presto a Trieste e poi a Venezia. Negli anni Quaranta e Cinquanta pubblica articoli e racconti sui giornali e il racconto lungo Il faggio (Neri Pozza, 1946), poi il romanzo breve La voce del fiume (Neri Pozza, 1947), e i successivi La donna sbagliata (Neri Pozza, 1950) e L’estate di Anna (Vallecchi, 1955).
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Leggiamo in questo post, i capitoli 5-6. Protagonisti, una donna che ricorda la sua infanzia e un faggio…
5.
Ho raccolto sul pendio delle genziane per portarle alla sua mamma nel cimitero solo in mezzo al prato grande; nell’ampiezza della valle, i monti gli fanno corona. La sua mamma ha voluto essere sepolta quassù per la grande pace. Siedo sulla pietra; in me una luce piana che in nessun altro luogo riesco a trovare.
L’ombra sale lenta dalle valli. Solo l’Alpe è ancora accesa nel sole, viva di crepacci che sono le vene della roccia. La pietra sulla quale mi appoggio è ancora calda. Il cancello arrugginito stride; Berto entra. Cammina senza vedere intorno fino alla tomba di sua moglie che ha ancora il cumulo di terra alto e una corona, sopra, di fiori di carta colorata. Si toglie il cappello; rigirandolo fra le mani parla sommesso senza intervalli di parole, lenta cantilena.
« Questa settimana – dice – ho venduto un quintale di fieno. Con quei denari ho comperato le scarpe a Luigi. Poi lo sciroppo per la Gina, in farmacia. Ha ancora la sua tosse. Non ho finito di accomodare la finestra rotta ma lo farò prima dell’inverno.»
Racconta, poi accenna una genuflessione, si rimette il cappello e va via, senza avermi vista.
Ora l’ombra ha coperto anche l’Alpe. Il marmo bianco delle lapidi, sulle tombe, ha raccolto la luce; i fiori della corona hanno invece perduto i loro falsi colori. Cammino fra presenze invisibili, piano, cercando di non passare sull’erba che a piccoli ciuffi e lunghi steli sottili nasce sulla stretta, breve strada.
6.
Il lungo cancello di legno scuro chiudeva l’entrata alla casa appoggiandosi al bosco folto a destra e a sinistra.
Trovata la traccia del tesoro dicevano di doverla seguire.
In quell’estate tale era il gioco.
Il bosco si allargava e ancora si allarga, fino alla casa grande e grigia poi continua, girando intorno al poggio nudo che ha, poco prima della cima rotonda, il faggio più grande di tutto il bosco.
I rami della grande pianta arrivano alla cima della collina, al cielo aperto che solo nei giorni più limpidi disegna, netta e candida, la catena delle Alpi Apuane.
Sotto il bosco il lago da un lato, la valle nuda e rocciosa del Taverone dall’altro. A pochi metri dalla casa, che è sopra un rialzo di terra, si scendono tre gradini di pietra caldissimi al sole sui quali noi seduti, in costume da bagno, facevamo colazione col piatto in mano. Dalla porta aperta della camera da pranzo i grandi vedevano il prato fino alla collina.
Piero, che era il più grande e mi stava sempre vicino perché dirigeva il lavoro, diceva:
« Il tesoro deve essere vicino alla cima della collina. Bisogna cercare fin là. »
Tutti assentivano, solo io dicevo:
« È molto lontano. Come faremo a trovare tutta la traccia?» e in me passava un’ansia smarrita.
Cercavano chini, sparsi al margine del bosco e dopo qualche tempo decisero che la traccia era a destra. Qualcuno, ogni tanto trovava un soldo coperto di porporina e lo mostrava a me che ero la più piccola, avevo undici anni, e mi illuminavo di gioia. Tutto il giorno facevo progetti per regalare il tesoro. Anche i grandi mi ascoltavano destinare a tutti qualche cosa; la parte che avrebbe dovuto restare a me mi dava un oscuro senso di paura.
A volte mi facevano aspettare alcuni giorni prima di mostrarmi, misteriosi, un’altra moneta oppure le dita sporche di polvere d’oro. Ed erano giorni di ansia.
« Mamma, credi davvero che lo troveranno il tesoro? Io ormai devo averlo. »
La mamma, incerta per un momento, guardando i miei occhi che supplicavano, rispondeva:
« Si, bambina, lo troverai. »
Nei miei sonni era la realtà del tesoro e il sonno si faceva leggero.
« Ma a te non resterà nulla — mi disse un giorno Piero — se continui a prometterlo a tutti. »
« Vedi — gli dicevo piano cercando di tradurre quello che sentivo —, se lo posso dare è sempre più grande. »
Piero mi aveva guardato serio:
« Cipi, è un gioco al tesoro. Tu sola ci credi. Noi giochiamo tutti per te. Anche i grandi. »
« Hai capito? — mi chiedeva prendendomi una mano — Non guardarmi così, » mi diceva spingendomi qualche passo verso gli altri che tornavano dal bosco e ridenti, parlando forte, dicevano:
« Abbiamo trovato la moneta •vicino alla casa, fra poco saremo alla collina. Cipi, guarda, ha tanto oro. » « Non sei contenta?» Delusi e stupiti si guardavano in viso l’un l’altro.
« Certo che è contenta. Lasciatela stare. È tardi, bisogna andare a casa e pulirsi per la cena », e Piero prendendomi alla vita mi aveva difesa dalle domande degli altri.
La sera neppure alla mamma dissi nulla.
Il cuore mi picchiava sordo nel petto e risuonava nel vuoto.
Non c’era nessun rancore verso gli altri: solo dolore e vuoto.
Quando la casa divenne silenziosa, al quieto battere dei rumori della notte sulla finestra, mi alzai dal letto. Scesi scalza le scale; uscita, entrai nella notte limpida, amica. Rasente il bosco camminavo nel prato fissa alla collina.
Prima della cima rotonda che pareva precipitare nel vuoto c’era, in mezzo al prato, il grande faggio.
Arrivata all’albero guardai la cima della collina e pensai che il tesoro non poteva essere lassù perché c’erano le stelle. Mi fermai con un grande respiro di riposo. Sedetti, poi mi allungai sul dorso.
Allargate le braccia, passavo la mano leggera, le dita tremanti sull’erba sfiorandola ma senza piegarla. Gocce leggere mi rigavano le tempie, si perdevano; e l’erba sotto le mie dita era umida.
I rami del grande faggio si chinavano su di me, mi chiudevano in un cerchio di foglie. Sotto le mie dita era il tesoro e piangevo di gioia.
Mi addormentai. All’alba Venanzio, il guardiano, mi portò in casa e mi misero a letto. Avevo la febbre e la febbre aumentò.
Chiamarono il prete. Venne col chierico che teneva la candela accesa in mano. Al suono della preghiera io, aperti gli occhi, guardo la candela, riconosco il bambino e cerco di sorridergli, richiudo gli occhi. La morte riceve l’ordine di lasciare il mio letto, ma indugia a lungo prima di allontanarsi. È quasi l’alba quando la morte si allontana e prende con sé il tesoro. Arrivata al faggio si ferma.
Sono poi guarita lentamente.
Quando potei uscire Piero mi accompagnò alla collina. Arrivati alla grande pianta, ci fermammo.
«Noi — mi disse Piero — torneremo qui. Torneremo sempre qui.»
Alla base dell’albero ombroso che ha avuto la sua ultima carezza c’è un formicaio. Operosissime, affaccendate, le formiche si arrampicano un poco, ridiscendono e scompaiono. Le foglie alte ascoltano una raffica di vento che passa, ed ha voce di cose lontane.
Mi curvo e prendo in mano foglie secche, le stringo in pugno, le getto sulle formiche. Rido della loro fuga, ma del mio riso le foglie alte hanno paura.
Anche il vento è ormai lontano.
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