“E c’erano gerani rossi dappertutto”: scrittrici della diaspora italiana in Nord America.

Un’antologia a cura di Valentina Di Cesare e Michela Valmori. Radici Edizioni, 2024.

E c’erano gerani rossi dappertutto raccoglie i testi di alcune tra le molte autrici americane contemporanee di origini italiane. Un viaggio che allarga il nostro sguardo su un’identità che tendiamo a dimenticare e che ci mette sulle tracce dell’esperienza migratoria, familiare e personale. Con questa antologia, curata dalla nostra collaboratrice Valentia Di Cesare e da Michela Valmori, nasce la collana “Strade dorate”, dedicata alla narrazione della diaspora italiana e italofona. Ci sembra che questa antologia rappresenti un primo esempio di raccolta di testi di scrittrici della diaspora in Nord America, destinata a un pubblico di non specialisti. Simbolicamente, una restituzione che vuole combattere quella strana amnesia che da tempo caratterizza la storia della letteratura italo-americana e canadese.

Siamo liete di presentare qui di seguito alcuni stralci da questa antologia che ci sembra in linea con la rubrica che Valentina di Cesare e Viviana Fiorentino hanno curato qui su Le Ortique, Latitudini (sfogliando alcune interviste della rubrica, troverete alcune delle autrici dell’antologia!).





Dall’introduzione di Valentina Di Cesare e Michela Valmori

È strano notare quanto in Italia un fenomeno di immensa portata socioculturale come quello dell’emigrazione sia stato e sia ancora trascurato, sminuito o addirittura trattato alla stregua di un tabù o di un mero discorso retorico, sospeso tra il riduttivo e il folkloristico. Non ci si riferisce ovviamente alla ricerca accademica, ma a pubblicazioni più fruibili e vicine a lettrici e lettori curiosi, ma non specializzati. Si pensi alla scuola, ai manuali di letteratura che i nostri studenti sfogliano in classe: quanti dedicano uno spazio congruo a questo tema? Quanti giovani sanno che contemporaneamente agli Ossi di Seppia di Montale uscivano negli Stati Uniti i Tales of an hurried man di Emanuel Carnevali? Nel 1939, solo un anno prima de Il deserto dei Tartari di Buzzati, il manovale italoamericano Pietro Di Donato pubblicava Christ in concrete (Cristo fra i muratori, recentemente riproposto dall’editore Readerforblind con la traduzione di Nicola Manuppelli). E potremmo continuare con decine di esempi. Perché tra le conoscenze letterarie essenziali che si demandano alla scuola non c’è una specifica sezione che faccia luce sulla produzione degli italiani emigrati? Non ci poniamo questa domanda per farne una questione comparativa da un punto di vista stilistico o contenutistico, ma crediamo di non affermare niente di nuovo, sostenendo che l’emigrazione italiana necessiti di una narrazione più completa, non limitata alla solita riproduzione tout court che continua, salvo rare eccezioni, a essere delineata molto approssimativamente.

I testi – alcuni stralci

Rita Ciresi – Domenica italiana

Mi agito sul banco e Ma’ mi molla un pizzicotto. Mi vengono le lacrime agli occhi. Vorrei una mamma americana gentile che distribuisce abbracci e non schiaffi. Sono impaziente che arrivi la domenica sera, quando posso sedermi sul pavimento a guardare l’Ed Sullivan Show. Adoro i maghi e i domatori di leoni, ma aspetto con ansia che lo spettacolo finisca, perché è allora che Ed Sullivan esce e dice: «Signore e signori, direttamente dall’Italia, vi presentiamo Topo Gigio, il topo italiano!». Nel suo morbido pigiama a righe, Topo Gigio è come nessun altro italiano che io abbia conosciuto. Canta e sorride e non va mai in chiesa o al cimitero. Non gli manca nulla. Gli basta chiedere un bacio della buonanotte per ottenerlo.

Joanna Clapps Herman – Siamo arrivati

Quando finalmente iniziamo a salire sull’ultima collina verso la città, scorgo edifici bassi di stucco bianco. Non è un ricordo, né un luogo immaginato, ma un posto reale e strano al tempo stesso, con piccole case e lampadine nude inanellate in serie infinite per le strade, tra una casa all’altra. È mezzanotte. E vediamo che ogni via è piena di gente. Non c’è spazio per attraversare questa ressa ammassata di celebranti. A dispetto del bagliore elettrico delle lampadine, è chiaro che siamo nel mezzo di a una festa medievale, San Rocco. La vettura è sommersa da persone che chiacchierano, ridono, mangiano. Parlano il nostro dialetto. Mangiano il nostro cibo. Non si accorgono nemmeno che l’automobile è lì. Continuano a fare quello che stanno facendo.

Nadina LaSpina – Come sono contenta

Ha detto “that’s all”, in inglese. Ci sono alcune frasi inglesi a cui è particolarmente affezionata. Come molti immigrati, parla una lingua ibrida. La sua è un misto di italiano standard, che non dimentica leggendo romanzi e riviste e guardando la tv italiana, siciliano, che è il suo dialetto nativo, prestiti da altri dialetti dell’Italia meridionale usati dai suoi amici e alcune parole e modi  di dire inglesi. “That’s all” è una delle espressioni che preferisce. Così brusca e definitiva. “That’s all” significa che non c’è altro da fare e né da dire, non sono ammessi dibattiti.

Marianne Leone – La mia storia d’amore italiana

Stavo attenta a tutti gli stereotipi culturali che circondavano l’italiano, sentendo l’odore degli insulti come sentivo quello dei  sigari schifosi che fumava mio nonno: il mio paffuto fratello a cui era assegnato il ruolo di Tony Spumoni, il gelataio, alla recita  scolastica, la buffonaggine degli italiani dipinti, in televisione e al cinema, come camerieri pacchiani o cartoni animati col naso grosso, pieni di ilarità mentre cercavano, senza riuscirci, di parlare  in inglese, il modo in cui la gente trattava con superiorità mia madre ascoltando i suoi maldestri sforzi linguistici. Da bambina snob quale ero, aspirante tutta americana insicura, mi ritraevo da tutto ciò che aveva a che fare coi timbri imbarazzanti di quelle parole aliene.

Chiara Montalto Giannini – La temperatura dell’acqua

La domenica, di mattina presto, prepara la salsa e la pasta fatta in casa. Verso le 8.00 o le 9.00 si va a messa. Al ritorno pensa al resto del pranzo. Un piccolo antipasto, la pasta, quindi il secondo, di solito braciole, polpette e salsicce cotte nel sugo, un’insalata e
qualche contorno. In America, nessuno torna a casa a mangiare durante la settimana; non c’è la siesta o il grande pasto di mezzogiorno e il pi-
solino. Si va al lavoro da pendolari e anche se si viaggia solo da Brooklyn a Manhattan, il tragitto può richiedere un’ora. Non c’è una vera e propria pausa nella giornata lavorativa. Si consuma un pranzo, comprato fuori o portato da casa, seduti alla scrivania, in un intervallo di trenta minuti (un’ora, se si è fortunati). Il pranzo della domenica è il nostro legame ininterrotto con l’Italia, col vecchio Paese e con le abitudini più salutari degli antenati. I pasti domenicali sono sacri per noi italoamericani, hanno un significato quasi religioso. È l’unica occasione della settimana in cui possiamo riunirci e spezzare il pane insieme. Ed è proprio quello che facciamo.

Annie Lanzillotto – Filomatri

Come barese-barese, io sono un’anomalia in America. La maggior parte degli americani che conosco sono un mix, almeno di province diverse. Mi viene in mente solo un altro amico nato in America che ha una singola linea di sangue da così tanto tempo. È Pueblo. Un pomeriggio, su un altopiano sacro del Nuovo Messico, mi ha mostrato dove ha vissuto la sua famiglia per sette generazioni. I miei antenati non sono stati rinchiusi in riserve o decimati in pogrom, la loro storia non è stata cancellata dalla schiavitù, le loro città non sono state distrutte da disastri naturali o bombardamenti. I loro certificati di nascita sono conservati nelle cancellerie comunali e i certificati di battesimo negli archivi delle chiese. Tutto questo c’è. Sono un sacco di documenti a prova dell’esistenza.

Mary Saracino – Non parlo italiano

Non so parlare l’italiano, anche se sono nipote di immigrati italiani. La lingua delle mie nonne e dei miei nonni paterni e materni è stata gettata, come spazzatura o inutile disordine, per le strade della mia città natale americana. L’essenza della loro umanità è stata etichettata per essere raccolta, portata via, scaricata con noncuranza in un deposito di rifiuti, che a quel punto già era gonfio della cultura di scarto di una moltitudine di immigrati, dall’Italia e da altri Paesi. Dietro i confini di porte e finestre chiuse, i miei nonni resistevano all’integrazione. Proteggevano gli scampoli di quel che era stato prima che partissero. Nelle loro cucine americane, nei salotti, nelle camere da letto, davano libero sfogo ai ricordi nella lingua delle madri perdute da tempo. In città, al mercato, all’ufficio governativo, a scuola, tentativi di inglese li tradivano. La vergogna emergeva nella cadenza delle loro parole frammentate, intere sequenze di frasi e paragrafi incomprensibili ai nuovi vicini.

Karen Tintori – Un piede qui, un piede lì

Sono cresciuta con l’Italia nelle orecchie. Ogni giorno mia madre chiacchierava al telefono con sua madre e le sue due sorelle, passando al siciliano quando non voleva che noi bambini capissimo. Mio padre parlava il chiuso diallat del nord con la sua nonnina, che non aveva mai detto una parola in inglese in più di ottant’anni di America, ma conversava esclusivamente in dialetto con noi pronipoti e con la nuora, nata in Georgia e sposata per corrispondenza. Zia Florine parlava a Mamma nel suo profondo accento del sud, e in qualche modo tutti noi ci facevamo capire.

Ho imparato presto che tra i dialetti dei miei genitori c’erano circa dieci parole in comune. Forse. 

Maria Laurino – Parole

I nostri antenati lavoravano la terra e anche se mio padre era nato a Millburn, in New Jersey, anche se non aveva mai tastato i terreni collinari di Picerno, nel Sud Italia, che davano frutti a malapena sufficienti per sfamarsi, da qualche parte nel profondo del suo sangue c’era l’istinto di raccogliere cibo commestibile ovunque fosse disponibile. Quando era un ragazzino, nei weekend lavorava come portamazze in un lussuoso golf club che limitava l’accesso agli italoamericani e ad altri tipi scuri. Intraprendente dodicenne, un giorno scoprì un fazzoletto fertile di verde oltre il setoso campo da diciotto buche.Si sedette tranquillamente su quel sentiero poco battuto e iniziò a raccogliere chicoy, il nostro vocabolo dialettale per indicare i denti di leone che si mangiano in insalata.
«Cosa fai?», chiese uno dei golfisti che passava di lì per caso. «La raccolgo per la cena di stasera», disse.
«Mangi l’erba?», rispose incredulo il golfista. Sì. Mio padre annuì, troppo imbarazzato per spiegare l’appagante sapore amaro della chicoy o della bugia quando si viene colti in flagrante.
La vergogna che deve aver provato da giovane su quel campo da golf, in forma diluita è passata a me.

Jennifer Romanello – Radici fra le pietre

Cinque anni prima, Olivia e i suoi fratelli avevano terminato i lavori di ristrutturazione della casa ereditata dal nonno paterno nel villaggio di Santa Lucia, in Calabria, nel Sud Italia. Era stata trascurata a lungo e versava in uno stato di fatiscente degrado, ma Mario si era offerto di supervisionare i lavori. Una volta finiti, Olivia e la sua famiglia avevano passato lì due settimane magiche. Ogni volta che a New York faceva un freddo brutale, il pensiero di quelle sublimi giornate estive in Calabria aveva il potere di infondere in lei un po’ di calore.
Aveva piantato diversi cespugli di rose in giardino e oleandri rosa lungo il vialetto che ora erano alti più di un metro e mezzo.
Era difficile credere che solo pochi giorni prima respirasse i fumi dei taxi e degli autobus di New York e adesso invece il profumo degli oleandri.

Rosanna Staffa – Un piccolo piatto alla volta

Quando mi sono trasferita in America, ho dovuto imparare a parlare una lingua che conoscevo quasi esclusivamente dai libri.
Erano voci soprattutto maschili, visto che gli autori di allora in Italia erano Hemingway e Scott Fitzgerald. Leggere in inglese era
stato un esercizio da godere in silenzio, un piacere da centellinare come un buon bicchiere di vino. L’esperienza della lingua parlata
è stata scioccante. A New York avevo l’impressione che tutti parlassero troppo rapidamente, con voci piene di consonanti che mi
affascinavano ma non potevo afferrare. Ero di nuovo una bambina dal vocabolario limitato. Ero spesso esasperata. Avevo nostalgia di me stessa, di quando potevo essere complessa e persino divertente. Di nuovo, ascoltavo molto e stavo in silenzio. Da piccola avevo imparato il dialetto veneto facendo attenzione a quello che dicevano gli altri bambini. Ascoltare era la chiave magica. Lo è sempre stata. Adesso capisco che è stato un dono non solo per imparare l’inglese, ma anche per la mia scrittura

Luisa Del Giudice – La migrazione delle figlie senza madri

 Ricordo un’infanzia piena di timori intensi e irrazionali – del buio, degli altri – che richiedevano che mia ma- dre si sedesse accanto al mio letto a tenermi la mano finché non mi addormentavo. Per anni, anche durante l’adolescenza, sono stata certa che la mia morte sarebbe stata causata dalla paura, che uno shock, prima o poi, avrebbe fermato all’improvviso il mio apparato cardiaco.
Poco dopo ho saputo affrontare e superare con coraggio la maggior parte delle paure, ho lasciato la mia casa, mi sono avventurata per il mondo e ho oltrepassato molti limiti: parlare in pubblico, viaggiare in luoghi completamente sconosciuti, conversare
nel loro territorio con italiani che non fossero compaesani, integrarmi nella cultura anglosassone della classe media e alta. In realtà ho imparato a godermi queste sfide e persino a scriverne, mentre alcune continuano a rivelarsi impegnative. Non mi sento ancora troppo a mio agio con gli italiani “veri” (per esempio nell’ambiente sociale dell’Istituto italiano di cultura e dell’Ufficio consolare),benché abbia lottato per decenni con un tentativo di appartenenza. Mi sono in qualche modo ritirata da questa socializzazione.

Loretta D’Orsogna – Nel dubbio o nella disperazione, migra

Da bambina, avevo sentito dire che ero la nipote del poeta, stranipote, per essere precisa, ma comunque questo non era il
punto. Il punto era: dov’erano le sue poesie? Seria seria, lo chiesi a nonna Maria, sua figlia, e per tutta risposta prese a ridere di gusto. La sua risata mi meravigliava sempre, soprattutto perché l’ho conosciuta che sembrava una statua,quindi senza emozione, la personificazione della serietà e della compostezza. Forse non rideva così da anni o decenni, forse neanche aveva mai riso così tanto; di certo io non l’avevo mai vista ridere tanto. Una personaggia austera, che quando la vidi la prima volta in Italia, mi incusse timore: tutta vestita di nero, le scarpe, la calzamaglia, la gonna, la maglia con le maniche lunghe e neri pure i capelli intrecciati, raccolti e arrotolati sulla nuca, inespressiva e come arrabbiata col mondo, tanto severa che pareva, appunto, pietrificata, una di quelle antiche statue di matrona romana con la gonna a cilindro.
Quel giorno, invece, la mia richiesta pareva divertirla come non mai e finalmente mi disse che no, poesie non ce n’erano. Suo
padre non scriveva poesie. E allora perché mai veniva chiamato così?Era perché leggeva, mi disse. Leggeva cosa, le chiesi. Leggeva il
giornale, e lo leggeva in campagna assiduamente quando smetteva di lavorare e si riposava, tra un’occupazione e un’altra, si metteva seduto sopra a qualcosa, apriva il giornale e se lo studiava.

Gail Reitano: Crescere a Pine Barrens, nel New Jersey

C’era una netta divisione di classe tra gli uomini che lavoravano in città e quelli che avevano le mani nella terra. Un giorno un uomo d’affari locale, italoamericano anche lui e con un abito appena migliore di quello che mio nonno usava la domenica, gli disse: «Assomigli proprio ai tuoi raccoglitori». C’era molto su cui riflettere in un’affermazione simile. I raccoglitori erano afro- americani che viaggiavano su uno scuolabus polveroso da Philadelphia per lavorare a pochi soldi sotto il sole cocente e l’umidità. Pop-pop portava sempre il cappello, ma la sua pelle italiana

era diventata di un marrone castagna scuro e opaco. Se quell’aspirante uomo, anch’egli immigrato, intendeva offenderlo paragonandolo ai raccoglitori, lui si limitava a sorridere, mentre la pelle bruna faceva risaltare i suoi occhi blu come cristalli.

Kathy Curto: Chi ti credi di essere?

Ero arrabbiata con i miei genitori per il modo in cui quei fiori intralciavano la vita che pensavo di voler vivere in quel momen-
to. Mi sarò anche pavoneggiata per il quartiere, comportandomi come un pezzo grosso, portando addosso una maglietta nera con
davanti lettere di plastica glitterate e termoadesive che dicevano “Principessa italiana”, ma la verità è che ero confusa. Amavo la mia maglietta, ma desideravo ardentemente anche le automobili con gli adesivi sui paraurti, le staccionate di legno e i barbecue americani.

Jean Feraca: Papà era tutta una questione di parole

Avevo sempre immaginato una tenera scena sul tuo letto di morte, io e te. L’avevo addirittura provata. Mi sarei intrufolata nella stanza, ultima ad arrivare, e ti avrei visto steso lì, a malapena cosciente. Mi sarei avvicinata e avrei sussurrato: «Papà, sono Jeannie. Sono qui». Avrei osservato le tue palpebre aprirsi e mi sarei fatta più vicina, il mio orecchio sinistro a sfiorare le tue labbra, mi sarei sporta per catturare ogni parola. Parole come gioielli da raccogliere e mettere da parte. Parole risparmiate solo per me. Parole, papà. È sempre stata una questione di parole. Le tue parole e. Le mie parole. Mi hai segnata, fin dall’inizio.

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