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#LeggiMilena #18 – Milena Milani, Portafortuna

            Due giorni fa, ritornando da Burano, ero seduta dalla parte opposta del vaporino, quella che è semicircolare e ha i sedili posti in quel senso, e alle pareti, tutt’intorno, ci sono vetri per guardare comodamente la laguna.

            Era una giornata ancora calda, con un cielo che mutava continuamente, nuvole che andavano e venivano, ma non erano minacciose, perché erano gonfie e bianche, di un candore di latte. La laguna era calma, abbandonata in una pace che prelude al riposo invernale, quando rare imbarcazioni ne solcheranno le acque, ed era di un colore di perla, non più azzurra o verde, soltanto di perla.

            Io ero con Pietro e Raimondo, due amici miei, Pietro un ragazzo massiccio, con gli occhi grigi, di poche parole, e Raimondo che un tempo mi regalava piccoli mazzi di fiori dai colori strani, che faceva preparare apposta per me da un fioraio di Campo Santo Stefano. Quel fioraio conosceva il gusto di Raimondo e anche il mio, non c’era bisogno che Raimondo spiegasse che fiori voleva: appena ci vedeva entrare, sorridendo metteva insieme i fiori, che prendeva da un vaso e dall’altro; quei mazzi erano sempre originali. Molte me li invidiavano, voglio dire molte ragazze, o per lo meno due o tre, che erano le ex-ragazze di Raimondo.

Pietro si era aggregato a noi sul finire dell’estate, e avevamo continuato a vederci in tre quasi ogni giorno, andavamo al mare, al caffè, al cinema; due giorni fa eravamo andati anche a Burano. Pietro stava quasi sempre zitto, oppur si limitava a brontolare una specie di «ehm, ehm» se noi dicevamo qualcosa, se io facevo una proposta, se volevo andare in un determinato posto.

            Ogni tanto io lo guardavo, e cercavo di guardarlo negli occhi, che erano, come ho detto, grigi, e per questo incerti, a volte fuggevoli. Ma Pietro aveva quasi sempre un paio di occhiali scuri, tanto che gli occhi non si vedevano, e solo a fatica se li toglieva, se io per scherzo continuavo a pregarlo. «Togliti quegli occhiali» dicevo. «Hai paura che ti vediamo gli occhi».

            Pietro, senza rispondere, faceva il solito verso, e poi dopo molte richieste, levava un attimo gli occhiali e arrossiva.

            Raimondo rideva: era quello un periodo in cui rideva parecchio, quasi mi faceva rabbia, perché era sicuro di sé, non pensava più di regalarmi fiori, e quando mi telefonava per vedermi, subito soggiungeva: «Sai, viene anche Pietro».

            «Bene» dicevo io, «mi fa piacere».

            Lo dicevo tanto per dire, non so proprio che cosa mi facesse piacere o dispiacere, perché le mie giornate se ne andavano e tornavano, e sempre succedeva qualcosa che mi sembrava di conoscere da tempo.

            Anche a Burano, quella gita nell’isola, che tante volte avevamo fatta noi due insieme, era arrivata come le altre volte, e ora vedevo la laguna, vedevo il cielo, stavo seduta e tacevo, mentre il vaporino filava veloce. Pietro e Raimondo avevano aperti i giornali, comperati la mattina e non ancora letti, di sfuggita potevo intravvederne i titoli, intuire quanto succedeva nelle diverse città del mondo.

Ma a me quello non interessava, e se leggevo frasi come «sistema difensivo europeo», oppure «i mostri di Beauvais» e anche «libera circolazione in Germania», sempre era il mio cervello che meccanicamente riceveva quelle vocali e quelle consonanti, perché io realmente non ne capivo il senso.

            Guardavo invece, nei sedili davanti ai vetri, un ragazzo e una ragazza che non si curavano di nessuno e parlavano tra loro, sembrando felici. Non so che cosa dicessero, perché erano stranieri, e la loro voce non giungeva distinta sino a me, ma e un tratto la ragazza rise e il ragazzo anche, avevano denti così bianchi, labbra fresche.

La ragazza era bionda e aveva i capelli legati dietro, con un elastico, come in una coda di cavallo, liscia e corta. Era vestita di blu, con un colletto bianco e un fiocco, come una collegiale; il ragazzo portava una camicia scozzese a grandi quadri e aveva una cintura in cuoio, alta, tutta lavorata, con disegni incisi. Attaccata alla cintura, sul fianco gli pendeva la guaina di un coltello, che a un certo punto vidi nelle sue mani.

            Era un coltello ricurvo, con l’impugnatura di cuoio e anch’essa lavorata come la cintura. Il ragazzo l’aveva estratto con molta disinvoltura e ora ridendo si accingeva a tagliare un ciuffo di capelli della ragazza. Lei stava immobile e seria, come se non se ne accorgesse, lui alzò con una mano tutti i capelli, soppesandoli, poi scelse con calma il ciuffo, lo divise dagli altri con cura, adagio lo tagliò, rimise a posto il coltello, posò il ciuffo di capelli sulle ginocchia, cercò qualcosa per legarlo.

            Si frugò in tasca, mentre la ragazza sempre ferma non diceva una parola. In tasca non trovava nulla, e allora con un gesto improvviso, strappò parecchi dei suoi capelli neri, lunghi e lisci, lo avvolse intorno ai biondi di lei, li legò in mezzo, poi ripose quel portafortuna nel suo portafogli, tra diverse carte.

            Questa volta la ragazza appoggiò una mano sulla mano di lui, teneramente lo guardò negli occhi.

            Io mi scossi dall’attenzione che avevo posto alla scena, qualcosa mi faceva male nel cuore. I miei occhi vagavano intorno; scorsi Raimondo intento nella lettura e Pietro ripiegato un po’ su se stesso, aveva lasciato scivolare il giornale sulle ginocchia, sembrava dormisse. Una grossa nuvola avanzava all’orizzonte, era ancora bianca, ma sporca; mi fece paura.

In «Nuova Stampa Sera», 19-20 dicembre 1953.

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