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#LeggiMilena #17 – Milena Milani, Diario veneziano

#LeggiMilena è la nostra rubrica dedicata ai racconti di Milena Milani. Proseguirà anche per quest’anno esplorando un mondo passato, soprattutto quell’Italia tra il secondo dopoguerra, il boom economico e l’immediato dopo. Ogni primo lunedì del mese offrirò un testo lirico, com’è nello stile di questa scrittrice: un testo da riscoprire e da riascoltare. I racconti che leggiamo sono usciti su «Stampa Sera» negli anni Cinquanta e Sessanta e su altre riviste del secolo scorso, talvolta raccolti in volume. Oggi dimenticata, Milena Milani (1917-2013) è stata, infatti, una “pluriartista” molto attiva come poeta, scrittrice di romanzi, pittrice, ceramista, organizzatrice di eventi, e anche come giornalista su varie testate, fino alla sua scomparsa. (at)

Ore 15,45. Mi sono fatta una tazza di tè perché mi era venuto mal di stomaco e in casa non ho altro. Forse dipende da quello che ho mangiato. Sono uscita a mezzogiorno passato per comperare qualcosa alla rosticceria di Calle delle Rasse. Ho comperato due supplì e un etto di baccalà alla vicentina, che per il mio stomaco è un po’ pesante, ho speso centosessanta lire. Adoro comperare da mangiare alla rosticceria, mi sembra di avere quindici anni e di lavorare da apprendista. Infatti ci sono sempre ragazze giovani che mangiano in piedi, oppure che portano via il pacchetto e spendono da cento a duecento lire, alcune hanno il grembiule da lavoro, altre si sono infilate il soprabito di sopra. A volte c’è qualche giovanotto che finge di mangiare con distacco il suo supplì, come avesse gran fretta e non ce la facesse a entrare in una vera trattoria. C’è un’abbondanza di pesce, soprattutto di baccalà alla cappuccina e mantecato; finché sono a Venezia lo compero quasi tutti i giorni, cerco di digerirlo come posso, magari prendo due pastiglie di Opopancreina. Il mio dottore dice che ogni tanto io devo prenderle, perché sono delicata, oggi però me ne sono dimenticata. Con il tè caldo, credo che passerà tutto. Ho acceso anche la stufa elettrica, mi sono messa un golf e uno scialle di lana sulle spalle. Non piove più, però il cielo ha ancora tante nuvole.

Ho messo la mollica dei panini sul davanzale, c’è un colombo che viene tutti i giorni. Ho comperato solo due panini, venti lire. Uno l’ho mangiato, l’altro l’ho svuotato per il colombo. Non so se lo mangerò stasera. Poi ho comperato l’uva. La compero in Calle in faccia la Sacrestia, ci sono due negozi, uno con tante cassette di frutta e l’altro con pochissime. Io la compero in quest’ultima bottega, perché c’è una donna alta e magra sempre vestita di nero che dev’essere una vedova. Ha un viso liscio ancora molto bello, anche se è vecchio e due occhi celesti, la pelle chiara, senza troppe rughe. Ha i capelli bianchi annodati dietro. A volte, quando c’è il sole e nessuno compera, di solito nel primo pomeriggio, si trasferisce con la sedia dall’altra parte della Calle, quasi all’angolo, e sta lì immobile, con un grosso gatto accanto ai piedi. Quel gatto lo incontro spesso di sera, miagola davanti alla bottega chiusa. La donna è sempre un po’ svanita e dimentica di aver fatto credito ai clienti. Non è la prima volta che assisto a un fatto di questo genere.

Stamattina viene una ragazza e dice che vuole un pero, perché in veneziano il frutto si dice come la pianta.

«Un pero, come?» fa la donna.

«Bello, proprio un bel pero» risponde la ragazza.

La donna sceglie una pera matura e grossa, la mette sulla bilancia, dice che fa venticinque lire.

«E venticinque ieri, cinquanta» soggiunge la ragazza, porgendole la moneta.

«Venticinque, di quando?» chiede stupita la donna.

«La gà xa dismentegà?» risponde la ragazza. «Ieri ho comperato i pomodori».

«Sarà…» dice la donna tranquilla. «Me desmentego sempre».

Io che sto aspettando il turno, la guardo: è possibile che lei dimentichi perché ha uno sguardo quasi infantile e ogni tanto si perde a guardare in alto, oltre i cornicioni delle case.

«Che cosa vede?» mi chiedo.

La sua anima è quella di una fanciullina, pesa la sua poca merce, come se giocasse. Non so chi le rifornisca la bottega, chi le porti la frutta e la verdura la mattina presto. Non posso immaginarla mentre va al mercato e contratta con i venditori con la voce forte, lei così esile, così educata. Compero da lei quasi tutti i giorni, specialmente uva e mele. Ostentatamente mi fermo lì davanti, quasi per far rabbia all’altro venditore della stessa Calle, molto più fornito e con i prezzi anche più bassi. L’altro mette la sua merce quasi in strada, cassette su cassette, sta impettito in attesa di clienti. È un uomo anziano, rosso in faccia, a volte c’è la moglie, e altre volte al posto suo ci sono i figli, due ragazzotti biondi e ben nutriti: uno di questi è un tipo elegante, ben vestito, con i capelli quasi a frangia, una testa come Marlon Brando e si dà arie; appoggiato alle cassette guarda la gente che passa, e fuma. Quando io mi siedo al bar che c’è in Campo San Filippo e Giacomo, lì a due passi, viene anche lui con gli amici, sta in piedi con noncuranza, una tazza di caffè in mano, beve e guarda. Più volte, quando ritorno a Venezia, e passo davanti al suo negozio, l’ho sorpreso mentre mi considera dalla testa ai piedi. Capisco quasi i suoi pensieri. È facile per lui guardare così, perché ha un punto di riferimento, la sua bottega è come un osservatorio, mentre la donna magra dell’altro negozio non si cura di nessuno, a lei interessa di più il cielo. La vedo anche dalla finestra, mentre si riposa sulla sua sedia, il capo appoggiato al muro, un po’ voltato in alto. Passano nuvole nel vento, un aereo sorvola la città, ecco c’è un po’ di azzurro, forse il tempo cambia, forse l’inverno è ancora lontano, il freddo non verrà tanto presto. Ma oggi, certo, non è caldo, con la mia stufa elettrica sto meglio, il male di stomaco se ne sta andando. Sono più calma, più tranquilla con me stessa. Decido di uscire, di andare dal parrucchiere. Come tutte le donne, vado a rilassarmi i nervi, non voglio più pensare a niente.

«Voglio, non voglio…» dico, e invece, aperto a caso a pagina 609 il Diario di uno scrittore, ecco che leggo: «Perché, vedete, anche indifferente, il dolore lo sento». Non ricordo a che cosa si riferisca questa frase, non me ne importa. Ecco, c’è una mano che entra nel mio petto, forse è soltanto la mia mano, che fruga senza pietà, senza vergogna. Avete mai visto un cuore a nudo? Che orrendo muscolo, che groviglio di fili della vita. La mano lo stringe forte, lo schiaccia, lo preme. «Questo è dolore, dolore fisico?» mi dico. Forse questo è il significato della frase di Dostoevskij. O il vero dolore è un altro, è quell’inesistente, persistente, capriccioso tanto che rode, penetra sempre di più nelle cavità, si adagia in noi, ne diventa padrone. Una risposta è assai difficile e non posso dirla a me stessa con i mezzi incompleti, mutilati, con le mie risorse umane, di creatura giovane che cerca non si sa che cosa, e che forse, e che forse non troverà mai; devo fare come tutti, forse? Devo piantarla di pensare? Devo livellarmi, ridurmi sul piano altrui? Non lo so, vorrei che qualcuno mi aiutasse a saperlo.

Apparso in «Stampa Sera», 19-20 dicembre 1961.

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