#LeggiMilena #16 | Milena Milani, L’acqua prigioniera

#LeggiMilena è la nostra rubrica dedicata ai racconti di Milena Milani. Proseguirà anche per quest’anno esplorando un mondo passato, soprattutto quell’Italia tra il secondo dopoguerra, il boom economico e l’immediato dopo. Ogni primo lunedì del mese offrirò un testo lirico, com’è nello stile di questa scrittrice: un testo da riscoprire e da riascoltare. I racconti che leggiamo sono usciti su «Stampa Sera» negli anni Cinquanta e Sessanta e su altre riviste del secolo scorso, talvolta raccolti in volume. Oggi dimenticata, Milena Milani (1917-2013) è stata, infatti, una “pluriartista” molto attiva come poeta, scrittrice di romanzi, pittrice, ceramista, organizzatrice di eventi, e anche come giornalista su varie testate, fino alla sua scomparsa. (at)

***

Si udiva appena un suono di campane. Io vidi una strada che saliva, una porta di una casa e un pergolato di glicine. Sotto il pergolato mia madre cuciva; io le stavo accanto e la chiamavo, ma ella pur desiderando rispondermi non riusciva a pronunciare una sillaba.
Vedevo la sua bocca dischiudersi, credevo di scorgere le parole formarsi sulle sue labbra, ma nessun suono ne usciva. Mia madre era rossa sino alle orecchie per il grande sforzo. La strada era bianca di polvere, era estate, un gran caldo invadeva tutto, anche le foglie delle piante erano polverose. Io ero diventata molto magra, non avevo ancora quattro anni e non facevo che tossire. Poi mia madre si alzava, riponeva il lavoro, dovevamo andare in pineta.
Nella camera sopra la cisterna, mia sorella piccola intanto si svegliò e fece un grande baccano. Mia madre annoiata la prese in braccio, passeggiando avanti e indietro, poi per farle smettere il pianto le calzò le scarpe bianche e le mise l’abito di pizzo anch’esso bianco. Non era molto adatto per la gita in pineta, ma era l’unico mezzo per calmare mia sorella piccola. Infatti essa cominciò a pavoneggiarsi davanti allo specchio dell’armadio. Allora mia madre mise anche a me le scarpe bianche e il vestito della festa, facendomi una carezza perché non ero capricciosa come mia sorella piccola. Mia madre non sapeva come io astutamente approfittassi dei pianti e degli urli di mia sorella per ottenere tutto senza grande fatica. Finalmente pronte, uscimmo sulla strada bianca e volgemmo verso un sentiero che conduceva al monte. Io diedi la mano a mia madre che mi sorrise, mia sorella andò avanti da sola. Il viottolo era fresco, tutto ricoperto di aghi di pino che scricchiolavano, con ai lati pietre con muschio verde. Poi ci sedemmo sotto un pino altissimo. Intorno c’era una gran pace, come se il mondo si fosse arrestato e Iddio ci avesse dimenticati. Sentii nel silenzio battere il cuore di mia madre e allora mi persuasi che veramente esisteva. Mi divertii a guardare le formiche che erano grosse e nere con la testa rossa e portavano enormi pesi. Quando ritornammo, stava giungendo la corriera che portava mio padre. Udii il suo fischiettare lontano ancora, gli corsi incontro, poi mi fermai: vergognosa, abbassai il capo, storcendo il collo, presa da una grande timidezza.
Mio padre alto e bello rise e mi sollevò tra le braccia.
«Sciocchina», diceva; «la mia bambina sciocchina».
Quella sera e in tutte le altre sere quando arrivò mio padre, mangiammo molto, nonostante mia madre protestasse a ogni nuova portata. Ma mio padre aveva fatto un lungo viaggio per raggiungerci, aveva una fame grandissima e gli piaceva vederci mangiare. Beveva vino rosso e incitava mia madre a berne e voleva che anche noi così piccole ne bevessimo un poco. Arrivavano intingoli grassi dove si metteva a pezzetti il pane, e noi due, abituate solo al latte, uova e frutta la sera, eravamo pazze di gioia. Mio padre andava a letto con gli occhi lucidi e la voce impastata. Io con grande rabbia [lo] sentivo abbracciare mia madre nel buio. Questo grande padre era mio e ne ero gelosa, non capivo che cosa facesse invece di dormire.
Quando lui se ne andava, ogni cosa tornava normale, alla mattina si beveva il latte, poi a mezzogiorno si mangiava il riso al burro con la carne, si facevano passeggiate, non si beveva mai vino. Io stavo spesso sotto il pergolato con la cassetta dei giocattoli che erano quasi tutti a pezzi. Mia sorella piccola non giocava mai con me, si sedeva in terra e riempiva il secchiello di foglie e sassi. La vita era molto bella, anche la tosse accennava a passare.
Poi, tutto a un tratto, ci fu il periodo degli spaventi, del terrore di mia madre che si comunicò anche a me. Fu la paura folle della cisterna.
Molte volte saltando nella camera da letto, sentivamo un cupo rimbombo sotto i nostri piedi. Ma chi ci faceva caso? Se fuori era freddo oppure pioveva o era già buio, ma non era ancora l’ora del sonno, ce ne stavamo in camera a giocare. Sedute su un tappeto, allineavamo i giochi, poi correvamo qua e là strillando. Dapprima non ci eravamo accorte di nulla. Qualche volta andando nel corrile, mia madre aveva ben visto prendere l’acqua con un secchio, da una porticina che si apriva nel muro, ma non vi aveva badato. Un giorno si accorse che quella porticina era proprio sotto la nostra finestra. Andò ad informarsi, le dissero che sì, c’era la cisterna.
Si misero a ridere. Che il pavimento della camera potesse crollare? Ma via, era cosa impossibile: da anni e anni la casa era in piedi e non era mai successo niente. Che cosa doveva capitare proprio in quell’anno? Le bambine saltassero pure: i muri, i pavimenti eran solidi. Tuttavia mia madre cominciò ad avere paura. La udivo di notte svegliarsi all’improvviso, sederti sul letto, gridare: «Bambine, dove siete?».
Mia sorella piccola si metteva a piangere, io pure singhiozzavo di spavento. Ci muovevamo ormai con precauzione enorme; io mi divertii a togliermi anche le scarpe per fare meno rumore.
Mia madre ogni mattina e ogni sera osservava se c’erano crepe nel muro o segni di umidità; quando usciva si portava dietro una grossa borsa con gli oggetti più cari. Io sentivo che anche quando passeggiava, il suo pensiero era rivolto alla cisterna e certo immaginava, ritornando a casa, di vedere tutto crollato. Invece i muri, benché vecchi, erano sempre in piedi, ma presto cambiammo stanza perché non si poteva più resistere.
La camera nuova non aveva niente di eccezionale e non la ricordo. Ma quell’altra, oh quell’altra sì! Era di color verdino smorto, grande, con il soffitto alto, con pochi mobili a distanza l’uno dall’altro, con vecchi tappeti e soprammobili polverosi nei punti dei trafori.
Mi pareva sempre che il pavimento scricchiolasse; molte volte gridai apposta: «Oh, mamma, cade».
Un giorno, già stavamo nella stanza nuova, giunsero due zii con un cugino piccolo a trovarci. Era un fratello di mia madre, tarchiato, con i baffi neri, con le unghie tagliate corte, sposato da poco con una donna grassa e piccola che aveva i capelli neri e crespi, due occhi lucenti. Il cugino era vestito con una maglietta grigia e un paio di pantaloncini al ginocchio, era appena più grande di mia sorella. Aveva i capelli tagliati come noi, con la frangia sugli occhi. Se ne stava quasi sempre in disparte e parlava piemontese, era un bambino scontroso e caparbio; sua madre, la prima moglie dello zio, era morta quand’egli era nato.
Invano io vuotai sul pavimento tutti i miei giocattoli, egli li degnò appena di uno sguardo. Mia sorella piccola gli tirò la maglia due o tre volte, ma egli non si voltò nemmeno.
Più tardi, mentre gli zii bevevano il marsala con mia madre, presi per mano il cugino e uscimmo nel corridoio, salimmo una scala e vidi subito la porta della nostra vecchia camera che era appena accostata. Le imposte socchiuse lasciavano passare un raggio di sole dove danzava la polvere. La stanza aveva uno strano aspetto di sgombero e di malinconia: i materassi arrotolati con la lana che usciva da qualche cucitura lacerata, cassetti dei mobili aperti con i fogli di giornale che venivano fuori, l’armadio semichiuso qualche attaccapanni per terra. Sul comodino c’era ancora un nastro che mettevo nei capelli e accanto alla finestra un braccio di cartapesta d’una bambola. Io e mio cugino prendemmo a giocare con le palle di carta che si mettevano nelle scarpe per mantenervi la forma e che erano, qua e là sparse; con rincrescimento non potemmo giungere alle statuine di porcellana tra cui c’era una bambina con il cane e un parasole.
Poi con grande mistero, io raccontai della cisterna e allora decidemmo di saltare più forte possibile per far cadere il pavimento. Il cugino prese gli attaccapanni e li batteva con forza, io picchiavo con i sandali e con il cavastivali di mio padre in un angolo.
Non riuscimmo disgraziatamente a combinar nulla, stanchi e sfiniti ci sdraiammo sul pavimento freddo, appoggiammo le orecchie a terra per sentire l’acqua, poi con i vecchi giornali costruimmo barchette.
Allora la voce della cisterna si udì ed era sottile, tremante ma buona.
«Bambini», diceva, «bambini, io non conosco il vostro viso. Tutta la mia acqua soffre ad essere chiusa, vorrebbe vedervi ed anche sapere com’è fatto il sole. La mia acqua è verde scuro, non possiede i pesci del mare, né le barche possono solcarla».
Noi due incantati ascoltammo quelle parole e un gran tremito ci invase, come una febbre e avremmo desiderato d’essere grandi per poter togliere la povera acqua dalla sua prigionia.
«Morirà lì dentro», dicevo io, ma non sapevo che cosa fosse morire. E il cugino mi guardava e si afferrava alle mie braccia, sempre più forte mi stringeva ed ora piangeva ed anch’io subito incominciavo a piangere.
Giunse mia madre, giunsero gli zii, pian piano arrivò anche mia sorella, ma nessuno capiva. Ci presero in braccio, ci portarono via dalla stanza e con le caramelle volevano farci sorridere. Ma noi increduli vedevamo il sole che continuava a brillare, ed ancora udivamo il lamento della cisterna. Come ora che guardando i tempi lontani, sentiamo la nostra vita assomigliare a quell’acqua: imprigionata.

Racconto apparso su «Nuova Stampa Sera», 19-20 dicembre 1953; con il titolo 𝘓𝘢 𝘤𝘪𝘴𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢
in 𝘌𝘮𝘪𝘭𝘪𝘢 𝘴𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘥𝘪𝘨𝘢 (Mondadori 1954).

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