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#LeggiMilena #14 | Milena Milani, Motivi

#LeggiMilena è la nostra rubrica dedicata ai racconti di Milena Milani. Proseguirà anche per quest’anno esplorando un mondo passato, soprattutto quell’Italia tra il secondo dopoguerra, il boom economico e l’immediato dopo. Ogni primo lunedì del mese offrirò un testo lirico, com’è nello stile di questa scrittrice: un testo da riscoprire e da riascoltare. I racconti che leggiamo sono usciti su «Stampa Sera» negli anni Cinquanta e Sessanta e su altre riviste del secolo scorso, talvolta raccolti in volume. Oggi dimenticata, Milena Milani (1917-2013) è stata, infatti, una “pluriartista” molto attiva come poeta, scrittrice di romanzi, pittrice, ceramista, organizzatrice di eventi, e anche come giornalista su varie testate, fino alla sua scomparsa. (at)

*

La finestra l’aveva lasciata.

Le rimaneva il vuoto insidioso e calmo di quel suo cervello sempre troppo attivo. Chi non conosce cosa sia andare da sola per una notte qualunque e le spalle s’incurvano e l’osso che si sente alla base del collo, dietro, fa così male, brucia addirittura, no, chi non sa questo non sa niente.

Se non le rimaneva nemmeno il rifugio d’un riposo immaginario coi sogni, pazienza. Infine c’era chi aveva anche meno.

Ricordava ora: nella sera Sambo era arrivato all’improvviso, il grosso cranio rossastro con i capelli che nascevano bassi, le rughe fonde, gli occhi sbarrati e chiedeva del suo protettore, di quello che l’aveva tolto dal manicomio, che ora era in campagna e poi sarebbe tornato, di certo che tornava e avrebbe dato ancora a lui, Sambo, un po’ di lavoro, forse soldi e vestiti.

Che miseria, ora lei pensava. E vedeva lei consolare Sambo come nella sera. Ma chi era per lei Sambo e cosa importava a lei infine del protettore di Sambo che non si faceva vivo da tanto tempo? Sambo era stato un particolare qualsiasi della serata, un pretesto, puramente un motivo, un uomo che era stato coi pazzi, figurarsi, tutti lo prendevano in giro. Lei non ne aveva paura, pure Sambo la guardava, ridendo e ammiccando, e anche poco prima le aveva detto mentre lei lo consolava: grazie signorina, e s’era messo a ridere senza motivo.

Insignificanti cose, pretesti per non sapere nulla di se stessa.

Ma indaghiamo il suo cuore, ora, guardiamo dentro, dove lei dice di possedere qualcosa. È in casa, scrive, alla macchina scrive, a quella dove lui ha cambiato il nastro qualche ora prima (lo proverai – ha detto – è nuovo, rosso e blu, ma non è molto buono, ogni tanto dovrai pulire i caratteri) e lei: sì – ha detto – lo proverò, grazie, sarà buonissimo. Pure se scrive non sa cosa scrivere, batte sui tasti, fanno un rumore cattivo, intorno è così buio e così silenzioso. Lei sente che tutti ascoltano. (Ritornando nel tempo, in sensazioni anteriori, sentiva che era nata per sbaglio e in determinate ore guardava con astio profondo la madre).

Così per quei pensieri remoti che affioravano come da uno stagno sommerso, a volte intuiva il suo destino opaco, inutilmente affannoso. Cercava nei sogni e nelle antiche letture, tenerezze e frasi senza più senso: erano tutte di persone che erano scomparse, chi morto, chi andato via e i biglietti da visita (quanti in una scatola color giallino piegati a mezzo, ammucchiati, nomi curiosi, chi sarà mai – si chiedeva – rivedendoli).

Sua madre cuciva un abito nuovo, smorto, i piccoli punti uno dietro l’altro, preparava un colletto, difficile, foderato.

Lei ogni tanto smetteva di scrivere e l’osservava con pietà estrema, impossibile. Sto per morire – diceva – e non te ne accorgi.

Anche da bambina fu lo stesso. Lei, ma perché lei se sono io? Io dunque vivevo sola e leggevo e guardavo gli alberi e interrogavo i misteri; chi capiva me sperduta, le cui gonne sempre troppo corte lasciavano fuori due lunghe gambe lisce; e stagioni mutavano, già ero fanciulla e il mio sangue era rosso, brillava sul bianco, come il cuore brillava e anche gli uomini allora si interessavano, chi è – chiedevano – quando passavo.

Ma io non sono lei, lei di questo scritto è un’altra, nata male, vissuta male e porta capelli sciolti e si tinge leggermente le labbra, la sua bocca sa come di fragola, ma è solo la marca del suo rossetto.

Così si è smarrita in questa sera, strade la dividono dalla ricerca, lei pensa a una porta scura, lucidissima, differente dalla altre, a una targa, la strada è molto piccola, stretta, con muri alti, dietro ci sono gradini.

Incredibili smarrimenti sopravvenivano quando li andava a vedere, solo le foglie alte degli alberi vedeva e dietro la porta c’era chi respirava.

– Ora ti chiamo – urla e sua madre sbagliò un punto nel suo lavoro, ma nemmeno sua madre esisteva se la stanza era vuota e fredda ed era così notte, la nebbia saliva, le luci debolissime si rincorrevano.

I pazzi come Sambo girano per la città, portano vecchi vestiti da soldato, un panno verdastro che non usa più, hanno paura dei manicomi, cercano il protettore ma il protettore li illude e non si fa più vivo.

– Povero Sambo, abbi pazienza – aveva detto – gli scriverò una cartolina – e aveva scritto infatti: non è giusto tenere Sambo in quest’incertezza, Sambo può lavorare, fare da segretario, da giardiniere, da guardiacaccia, curare i cani, i pavoni, la biblioteca.

Speriamo che il protettore si commuova e ritorni. Sambo dice di sì che dopo una simile cartolina certo ritornerà. Sambo ha paura d’essere di nuovo rinchiuso coi pazzi, lei pensa che non ne avrebbe paura. I pazzi sono brava gente.

Si guardava ora in una vecchia fotografia, aveva in essa le spalle nude color dell’oro, superba, e rideva di se stessa nel tempo; io quella? Era anni fa, quando non soffriva, e non aveva gioia, era forse quando si lasciava andare.

Anche ora cade, ugualmente cade, è sprofondata in una sera, non risale, non le interessa. Se parlasse direbbe quello che io ho detto tante volte. – Non so perché mi trascino; non ho scopo; non ho te; non ho niente. Odio questo freddo, questa città, la gente, tutte le città del mondo, i paesi invece li amo; disperatamente li amo. Mi contraddico. Sono assurda, incompleta. Le ricerche non servono, le mie unghie scalfiscono i muri; e tu dove vai dunque? –.

Ma vedete, era così sciocco, tutto questo, e poi infine non aveva più fantasia. Si sentiva come morire; credeva nella sua beatitudine che morire fosse così semplice, estremamente.

Come le avevano detto, aspettava, e intanto sua madre cuciva ed egli era così lontano, soprattutto inconsapevole.

© Milena Milani

Racconto apparso su «Terraferma. Lettere e arti» di Neri Pozza, Anno I, n. 6 del 25 dicembre 1945; già in Milena Milani, L’estate, Edizioni del Cavallino di Venezia, 1943.

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