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#LeggiMilena #13 | Milena Milani, Sara e il materassaio

#LeggiMilena è la nostra rubrica dedicata ai racconti di Milena Milani. Proseguirà anche per quest’anno esplorando un mondo passato, soprattutto quell’Italia tra il secondo dopoguerra, il boom economico e l’immediato dopo. Ogni primo lunedì del mese offrirò un testo lirico, com’è nello stile di questa scrittrice: un testo da riscoprire e da riascoltare. I racconti che leggiamo sono usciti su «Stampa Sera» negli anni Cinquanta e Sessanta e su altre riviste del secolo scorso, talvolta raccolti in volume. Oggi dimenticata, Milena Milani (1917-2013) è stata, infatti, una “pluriartista” molto attiva come poeta, scrittrice di romanzi, pittrice, ceramista, organizzatrice di eventi, e anche come giornalista su varie testate, fino alla sua scomparsa. (at)

*

Il materassaio venne alle otto e portò il materasso più lungo della rete metallica. Gli dissi: «Non va bene, è troppo lungo», ma lui rispose che andava benissimo, e che non l’avrebbe rifatto per tutto l’oro del mondo. «È stato un gran brutto lavoro», mi fece osservare; «la lana non era stata lavata in precedenza e ho dovuto lavarla; l’avevo messa ad asciugare in cortile e piovve proprio mentre non c’ero; di nuovo dovetti farla asciugare e poi la pettinai perché era piena di nodi e tutta ispessita». «Ma la lana non c’entra con la lunghezza del materasso», dissi; «prima il materasso andava bene, adesso lei l’ha rifatto troppo lungo». Il materassaio sembrò non ascoltare, se ne andò in malo modo; per tutte le scale brontolò e lo sentirono anche gli altri inquilini; stringeva i soldi e diceva che erano pochi, diceva che la sua era una brutta vita e che la gente non era mai contenta. Effettivamente anch’io non ero contenta, ma mi adattai, tanto non c’era niente da fare, e quando furono le nove e venne Sara per i servizi, mi sfogai con lei. «Guarda, Sara, che materasso», dissi; «per tutta la notte ho dormito rannicchiata sul divano e non immaginavo un simile lavoro. Il materasso è troppo lungo, e il materassaio ha detto che ha ragione lui». Sara diede ragione a me e incominciò a rifare il Ietto, ma le coperte non stavano a posto, il materasso pendeva dal fondo. «Tiralo più sù», dissi, «cerca di metterlo meglio», ma inutilmente cercammo di sistemarlo; il materasso era sempre troppo lungo. Io ero così seccata, che presi ad incolpare Sara. «Senti, che tipo di materassaio mi hai mandato?». Sara mi guardò con i suoi occhi blu e le ciglia nere, strani, strani occhi e strane ciglia per una ragazza a mezzo servizio. «Signorina, non è colpa mia», diceva, «era il materassaio della signora qui sotto». «Di che signora?», chiesi innervosita, perché la gente che abita nelle mie scale la conosco poco. «Della signora De Lucis», disse Sara con rispetto, «la signora dell’ingegnere». «Che cosa vuoi che me ne importi della moglie dell’ingegnere», ribattei. «La signora dell’ingegnere», esclamò Sara, arrossendo, «è una gran brava signora»; «E chi dice il contrario?».«È una brava signora», seguitò Sara, «e io le sono affezionata». «Affezionata?», io dissi, «bene, questo non lo sapevo; credevo che fossi affezionata a me». Sara non rispose e guardava impacciata davanti a sé. «Si può sapere che cosa guardi?», chiesi. «Niente». «Faresti meglio a guardare il materasso», seguitai, «e a vedere che cosa si può fare». Sara guardò il materasso, lo guardò anzi molto intensamente, ma io vedevo bene che non lo vedeva. Incominciò a spolverare, ma puliva con gesti meccanici e la polvere restava sui mobili. «Senti, Sara», io dissi; «sarebbe meglio se mi dicessi tutto». «Tutto, cosa?». «Tutto della moglie dell’ingegnere», feci, e avevo certo indovinato giusto. «La signora De Lucis mi ha detto se vado da lei a servizio», disse Sara, «me l’ha detto giorni fa quando l’incontrai in portineria. Io chiedevo alla portinaia l’indirizzo di un materassaio e la signora De Lucis disse che ne aveva uno molto bravo…». «Molto bravo davvero!», mi venne fatto di esclamare, piena di rabbia. «Salimmo insieme per le scale», seguitò Sara, «e la signora mi disse che mi avrebbe pagato anche di più, ma io risposi che non ero sicura e che prima ne avrei parlato alla mia padrona». «Ora me l’hai detto», dissi «puoi andartene anche subito». Sara radunò la sua roba, una vecchia vestaglia, un paio di pantofole che metteva in casa, il fazzoletto bianco per i capelli; io le pagai la settimana, anche se non era finita. Se ne andò subito. Scese soltanto due scale, udii il campanello del piano di sotto, io mi sdraiai sul materasso e non ricordo quello che pensavo. Dalla terrazza venne il mio gatto che era andato tutta la notte per i tetti, aveva il pelo bianco sporco di nero e un occhio mezzo chiuso per un graffio. «Ehi, Mucci», feci io, «te le sei prese?». Mucci venne a sdraiarsi accanto a me, ronfava pianissimo. Fu una giornata abbastanza piacevole, non pensavo ai piatti da lavare, al pavimento da pulire, stavo sdraiata oppure alla finestra. Sentivo Sara che batteva i tappeti sul balcone della signora De Lucis. Restai in casa tutto il giorno, ogni tanto mangiavo una mela. La sera, in cucina, i piatti erano aumentati; aumentarono anche il giorno dopo, anzi per colazione mi feci un uovo al marsala e pensai che avrei dovuto lavare la tazza con acqua ben calda e soda, per fare andare via l’odore. Verso le nove sentii suonare il campanello, non immaginavo chi potesse venire a quell’ora. Andai ad aprire, con Mucci che mi seguiva, e vidi Sara appoggiata alla ringhiera. «Ciao, Sara, come va?». Sara aveva la borsa piena di roba e quando entrò vidi che aveva la vestaglia, le pantofole e il fazzoletto bianco. «Sono qui», disse Sara «sono ritornata». Io mi misi a ridere, «Bene, Sara, sei arrivata a proposito; c’è un mucchio di piatti da lavare». Ma Sara non pensava ai piatti, non le interessavano anche se erano tanti; capii subito che Sara pensava ad altro. Aprì con precauzione un pacchettino di carta e tirò fuori un ago, un ago lunghissimo e robusto. «E quello, a che ti serve?», dissi. Lei già stava buttando per aria le coperte, disfaceva rapidamente il letto, robusta com’è prendeva il materasso, lo distendeva sul tavolo, adoperava forbici, spago, con il centimetro misurava quanto era più lungo della rete il materasso, tagliava e cuciva. «Non ne potevo più», disse, «ero dalla moglie dell’ingegnere (non disse più «signora») e pensavo al materasso. Era troppo lungo, non andava bene. La moglie dell’ingegnere mi fa: «Beh, com’è andato il mio materassaio dalla tua padrona?». Io allora le racconto tutto, dico: «È venuto male, l’ha fatto troppo lungo». Ma quella si mette a ridere. Rideva a bocca aperta, con i denti d’oro, vedevo anche il palato, la gola tutta intera. Rideva come una pazza». Sara tacque, non mi disse il resto, ma io guardai i suoi occhi, li guardai quel giorno e i giorni dopo. Erano, da blu, incupiti improvvisamente, diventati neri quasi come le ciglia. Ci volle tempo perché ritornassero come prima.

© Milena Milani

Racconto apparso su «Stampa Sera» il 27 giugno 1950.

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