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Milena Milani littrice di poesia negli anni Quaranta

di Maria Ester Nichele

Trovai questo volume in una libreria di Roma tempo fa. Sfogliando un po’ vidi che c’erano alcune interviste molto interessanti. Lo comprai subito. C’era quella della mia madrina ed amica Milena Milani, assieme a tantissimi poeti e scrittori di quel periodo. È un libro molto interessante per capire il tempo degli anni Trenta e Quaranta del Novecento e come cercavano di emerge i giovani. 

***

Nel 1941 Milena Milani partecipò ai littoriali femminili della Cultura a Sanremo, dove fu littrice per la poesia. Che cosa ricorda di quell’esperienza? 

Io avevo in mente, sin da bambina, di scrivere e dipingere. A scuola e a casa, appena avevo un foglio di carta, mi piaceva raccontare storie, mescolavo parole e colori, inventavo situazioni. Volevo farmi notare, essere in primo piano. I littoriali erano una possibilità di emergere, per questo vi partecipai. Del fascismo non mi interessavo, anche mio padre è stato perseguitato e cacciato via dal posto dove prestava servizio, l’ispettorato dell’agricoltura [a Savona, ndr], dove nei primi tempi non era obbligatoria la tessera, ma poi la richiesero, e io mi trovai con un padre senza lavoro quando iniziai l’università. Durante tutta la mia infanzia avevo sentito sempre parlare di questo fascismo che aveva soffocato le idee di mio padre, o che almeno tentato di farlo, perché mio padre continuava ad averle, mio nonno era stato garibaldino, c’era una tradizione di libertà nella sua famiglia. Alle scuole elementari e, poi, alle medie, dovetti indossare la divisa; era obbligatoria; dovevo anche andare alle adunate e questo era molto scocciante per il mio carattere, perché con la gonna nera a pieghe, quella camicetta bianca infilata dentro e una cintura stretta in vita, mi stava malissimo. Ricordo che mi guardavo allo specchio e mi trovavo ridicola, non sapevo come sistemare il basco sui capelli, lo mettevo storto, quasi sull’orecchio destro.

All’università, quindi al Guf dove fu necessario iscrivermi, la divisa era migliore, una specie di tailleur nero con le spalline azzurre. Io lo volli di staffa fine, costosa, non di una di quelle che si compravano confezionate, perciò dovendo metterla quasi quotidianamente, me la feci fare su misura.

La cucì mia madre, dopo prove estenuanti, sopratutto per quanto riguardava la gonna molto attillata che avevo preteso sopra le ginocchia. Con questa divisa, per sfilare nei cortei, ci sarebbero volute scarpe basse, ma io di nascosto ne avevo comprato un paio con tacchi altissimi. 

Fu con queste scarpe e calze nere trasparenti che mi presentai a Sanremo.

L’ammirazione da parte maschile era scontata anche perché ero una ragazza che tutti dicevano attraente. Il mio arrivo ai littoriali creò un certo scompiglio. Pochi mesi prima alla fine del 1940, mi ero iscritta all’Università di Roma che avevo raggiunto da sola, partendo da Savona, la città dove sono nata. Ora il fatto di risalire sino a Sanremo, senza dovermi fermare in famiglia, mi parve positivo e esaltante. Poi c’erano tutti quei gerarchi che mi divertivo a prendere in giro senza assoggettarmi ai loro desideri. Ricordo queste sgradevoli figure che indossavano divise di orbace e che esercitavano il loro potere  soprattutto nei confronti con le donne. 

In quei giorni conobbi lo scultore Francesco Messina, anche lui in divisa fascista, che era il presidente delle commissione per l’arte.

Devo averlo colpito, se dopo la morte del poeta Leonardo Sinisgalli gli eredi trovarono una lettera che Messina gli aveva inviato e ne fecero la fotocopia. Lo scultore scriveva al poeta: “Sai, in questo Sanremo c’è questa Milena Milani che ha scritto poesie così strane. Penso sia un tipo che farà strada”. Feci anche la conoscenza di Giuseppe Ravegnani, critico letterario stimato, persona intelligente e corretta, che era in quella giuria per la poesia. Mi invitò a collaborare al «Corriere Padano» di cui faceva la terza pagina. Era diverso dagli altri giudici che si davano molto tono. A Sanremo io giravo per la città, quando avevamo una pausa tra un convegno e l’altro. Ero seguita da qualche ragazzo e dai fotografi. Ho trovato tra le mie vecchie carte una foto nella quale sono ritratta seduta sui gradini della scalinata dell’albergo Royal, vicino al Casinò. Il fotografo mi ha inquadrato puntando sulle gambe: sembra così che siano enormi, con quelle calze nere velate, quei tacchi alti e la gonna sopra le ginocchia. In più apparivo più adulta, perché io, che portavo i capelli sciolti, li avevo tirati su per darmi un’aria di donna fatale, mettendomi poi un fiocco di staffa sulla testa sembrando ancora più alta.

Era un modo di essere molto esteriore, anche se frequentavo, soprattutto  degli intellettuali ed ero avida di cultura. Ero una creatura cui piaceva contemplare il mare, che amava la notte, le passeggiate anche da sola, mentre invece a Sanremo si cercava di concludere con le ragazze. E io, invece, ero portata alla poeticità anche se da un lato mi andava di illudere quei gerarchi. La mia maniera di scrivere poesie era qualcosa di segreto che io davo in pasto alla gente quasi con orrore. La mia anima messa a nudo mi impietosiva ed allora cercavo di mescolare le carte, di camuffarmi dietro il mio fisico di bella ragazza, insomma, volevo apparire superficiale per ingannare tutti.

Con Ravegnani no, questo non avvenne, ricordo che mi rimproverò per il mio comportamento, mi sgridò come un padre, mi disse che non dovevo sprecare la mia vocazione, le mie possibilità poetiche. Lui intuì il mio coraggio, quello che mi aveva fato scrivere le poesie con le quali concorrevo ai littoriali. Erano tutte poesie d’amore, di disperazione, di solitudine, di tristezza. Le altre partecipanti avevano presentato versi che inneggiavano al fascismo, al duce, alla guerra [una parte finirà in Ignoti furono i cieli, Edizioni del Cavallino di Venezia, 1944, proprio nella sezione “Poesie liguri”, ndr].

Io, invece, avevo scritto composizioni in cui c’era molta fisicità mescolata alla spiritualità. Percorrevo alcune protagoniste dei miei futuri romanzi, con i loro drammi e le loro insoddisfazioni, da La ragazza di nome Giulio a La rossa di via Tadino, e come loro non permettevo agli altri di giungere alla mia vera essenza, di penetrare nel mio nascosto. Difendevo, insomma, il mondo murato della donna…

Grazie alla fotoreporter Maria Ester Nichele per questo ricordo della sua amica Milena Milani che ha scoperto nel volume I giovani di Mussolini di Aldo Grandi (Baldini & Castoldi, 2001).

Immagine: Milena Milani fotografata da Paolo Monti nel 1963. Disponibile nella biblioteca digitale della Fondazione BEIC. L’immagine proviene dal Fondo Paolo Monti, di proprietà BEIC e collocato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano.

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