[traduzione di Margherita Patriarca, studentessa presso la Sezione di Studi in Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste – introduzione e revisione di Alice Girotto]
Una vita silenziosa e solitaria, interamente dedicata alla scrittura: è quella vissuta da Maria Ondina Braga (1932-2003), scrittrice e traduttrice portoghese originaria proprio della città di Braga, nel nord del paese. Dopo un’adolescenza segnata da una malattia neurologica e a cui risalgono gli esordi poetici, a metà degli anni Cinquanta la decisione di andare da sola in Inghilterra “per vedere di che cosa ero capace” le fece intraprendere il primo di una serie di viaggi che la tennero lontana dal Portogallo per una decina d’anni. Alle destinazioni europee, Londra e Parigi, scelte per seguire corsi di lingua inglese e francese, seguirono Luanda, capitale dell’Angola, dove insegnò inglese e portoghese dal 1959 fino allo scoppio della guerra di liberazione dal colonialismo, nel 1961; poi Goa, altro territorio da cui fu costretta a scappare dopo soli sei mesi dal suo arrivo a causa della riappropriazione dell’allora colonia portoghese da parte dell’India; infine Macao, provincia d’oltremare del Portogallo in Cina, dove rimase fino al 1965. Tornata in patria, si stabilì a Lisbona e iniziò a pubblicare le prime opere in prosa, debitrici dei suoi viaggi: del 1965 è la raccolta di cronache Eu vim para ver a terra (‘Sono venuta per vedere il paese’), mentre nel 1968 videro la luce i racconti di A China fica ao lado (‘La Cina è qui accanto’), che nel 1966 avevano vinto il primo premio per autori esordienti del Segretariato nazionale di informazione. Fra gli oltre venti titoli pubblicati in vita, l’esperienza macaense e il rapporto con la cultura cinese non riecheggiano solo in questo volume tanto caro all’autrice, ma ispirarono anche i successivi Angústia em Pequim (‘Angustia a Pechino’ – 1984), il romanzo Noturno em Macau (‘Notturno a Macao’ – 1991) e O jantar chinês e outros contos (‘La cena cinese e altri racconti’), quest’ultimo pubblicato postumo nel 2004.
Apparentemente, il ruolo singolare della scrittrice bracarense all’interno della letteratura portoghese del secondo Novecento sembra aver ricevuto, soprattutto in anni recenti, un certo riconoscimento non solo accademico: oltre a due congressi internazionali dedicati allo studio della sua opera, tenutisi nel 2016 e nel 2018 nella sua città natale, a lei è intitolato il Gran Premio per la Letteratura di viaggio dell’Associazione portoghese degli scrittori (vinto, nelle ultime due edizioni, da autori di punta come Afonso Cruz e Alexandra Lucas Coelho). Tuttavia, la sua estesa opera non ha visto alcuna riedizione successiva alla sua morte e non è dunque più accessibile al lettore che, senza conoscerla attraverso un qualche corso universitario, voglia scoprirne l’universo narrativo. D’altra parte, la difficoltà a imporsi nell’ambiente letterario a lei coevo, se non una vera e propria marginalità, sofferta ma non contrastata, ne avevano già caratterizzato la posizione in vita. In un’intervista rilasciata a Maria Teresa Horta e pubblicata sul quotidiano Diário de Notícias il 5 aprile 1992, in occasione dell’uscita dell’edizione bilingue, portoghese e cinese, di A China fica ao lado, è la stessa Maria Ondina ad affermare, a proposito della prima pubblicazione di questo che è stato il suo libro preferito, avvenuta grazie all’impulso di un organismo pubblico del regime salazarista: “Dico sempre che sono entrata nel mondo delle lettere dalla porta sbagliata… Ma la verità è che all’epoca non conoscevo praticamente nessuno a Lisbona, nessun editore”. E ancora, alla domanda se pensa che il mondo letterario sia stato giusto con lei: “Penso di no! Scrivo con tanto impegno, tanta serietà! E raramente viene riconosciuto. La risposta a quello che scrivo è, di solito, il silenzio”.
La ritrosia, l’incapacità di tessere una rete di relazioni sociali, la solitudine a cui si votò e su cui quasi sembrò aver scommesso, come la stessa Maria Teresa Horta insinua nelle sue domande, non consentirono a Maria Ondina Braga di emergere nitidamente, con posizione sicura, nel panorama letterario portoghese contemporaneo. Fuori del comune per l’epoca in cui visse, però, resta la sua traiettoria di viaggiatrice solitaria per i quattro angoli dell’allora impero portoghese, di donna sostenutasi con la sola forza della sua occupazione, di scrittrice la cui vita si è fusa con la sua scrittura. Di lei presentiamo qui la traduzione inedita di un racconto tratto dal suo libro più amato, A China fica ao lado, da cui emerge la delicatezza malinconica dello stile asciutto con cui ha narrato le storie di un Oriente non esotico, ma abitato da gente umile e dimessa, in sintonia con il suo temperamento. Gente alla quale la legò per sempre, ed è questo uno dei temi più presenti nella sua opera, una profonda simpatia umana: “Penso che non potrei mai scrivere, né interessarmi, dei costumi di un popolo senza averlo, innanzitutto, amato”.

L’uomo del sam-lun-ché
Il bambino apparve sulla porta del convento una mattina umida di marzo. Aveva circa sei mesi, i lineamenti misti di cinese ed europeo, la pelle chiara. Un bambino perfetto, avvolto in panni di flanella rossi e con un amuleto di osso al polso.
Ovviamente le preghiere erano risuonate più tardi nel coro quella mattina. Dovevano dar da mangiare al bambino, che piangeva disperatamente succhiandosi il pollice, cambiargli i vestiti ormai freddi con dei panni caldi. Un grande scompiglio per le monache più giovani. Preoccupazione e compassione sul volto severo della badessa.
Non era la prima volta che sul portone del convento comparivano bambini abbandonati. Sempre bambine appena nate, però. Qualche volta erano le stesse madri a consegnarle alle monache. I padri non le volevano. Dovevano disfarsi di loro in qualche modo. Le religiose tentavano di convincerle, promettevano farina, un corredino, ma finivano per accogliere le poverette, mandandole al nido, dove, appena raggiunta l’età giusta, passavano all’asilo delle orfane.
Alcune di queste trovatelle diventavano poi suore laiche, altre invece governanti, ricamatrici. Bisognava dar loro una direzione raggiunta l’età adulta. Le chiamavano “le figlie della carità”.
Un bambino, però, era una faccenda più complicata. Dove l’avrebbero messo dopo il nido? Sicuramente la madre doveva essere proprio disperata per abbandonare così un figlio maschio.
Le donne di servizio bisbigliavano: “Madre snaturata! Un figlio maschio, la più grande felicità di qualsiasi donna! Una ballerina, sicuro, una di facili costumi, senza sentimenti né dignità.”
La grassoccia sorella che controllava il portone, che era stata la prima a vedere il trovatello, imponeva il silenzio. Chi poteva giudicare cosa avesse spinto una madre ad abbandonare il proprio figlio? In realtà, lei l’aveva sopportato fino a quella età… Che ne sapevano del dramma di una tale separazione? Pregare per lei, sì, era l’unica cosa che valeva la pena fare.
Ovviamente la madre superiora non chiamò le autorità né tentò di indagare, perché sarebbe stato tutto inutile. Era impossibile ritrovare la famiglia dell’esposto in un mondo così confuso: perlopiù persone non identificate, rifugiati provenienti dalle più disparate parti della Cina, ogni giorno, a frotte di decine e decine. Usavano nomi falsi, non si conoscevano fra loro, parlavano dialetti diversi, si mettevano i bastoni fra le ruote a vicenda, si odiavano, vittime del più tragico destino che può pesare su una creatura: non possedere nemmeno uno scampolo di terra.
La soluzione non era forse adottare il trovatello, battezzarlo e affidarlo alla Provvidenza?
Lo chiamarono Francisco, in memoria del santo venuto a mancare lì davanti, sull’isola di Sangchuan, cinquecento anni prima. Per madrina, la domestica più anziana del convento. Per padrino, il santo.
Ma, il giorno dopo la comparsa del bambino sul portone del convento, venne richiesta un’udienza privata alla madre badessa. Era l’uomo del sam-lun-ché, colui che, quando le bambine uscivano da scuola, le chiamava a gran voce perché si facessero portare a casa sul suo triciclo. Era venuto a pregare la suora di affidargli il bambino, non appena fosse finito il suo periodo al nido. Era vecchio, povero, solo. Tuttavia, sentiva il desiderio di dedicarsi a qualcuno. Nel porto interno aveva una sampana dove potevano stare entrambi. I soldi che racimolava con le corse alla fine del giorno gli davano abbastanza per entrambi.
La madre superiora accettò, grata, a condizione che il bambino frequentasse la chiesa cattolica, il catechismo e che il convento si occupasse della sua educazione spirituale.
Aveva pregato tutta la notte San Francesco Saverio, la madre superiora, chiedendo che si trovasse una casa per il bambino disprezzato. La risposta del santo era arrivata tempestiva. Un miracolo. Il vecchio del sam-lun-ché era un cinese serio, di cui il convento si poteva fidare. Il ragazzino sarebbe cresciuto come uno del suo popolo. Cristiano battezzato, educato in chiesa. Chissà se non sarebbe diventato un esempio per molti, la conversione dello stesso protettore?
Francisco Cheong — dal nome del suo padre adottivo — divenne un gentile ragazzino del coro, che serviva durante la messa ogni mattina nella cappella del convento, presentando al sacerdote, durante la benedizione della sera, il turibolo profumato di incenso.
Il vecchio Cheong lasciava il triciclo all’angolo per andare a vedere il piccolo durante le celebrazioni religiose. Qualche volta gli salivano le lacrime agli occhi. Il ragazzino pareva un angelo più che un comune mortale. Passi silenziosi da un lato all’altro dell’altare, un inchino ora, le mani giunte poi, la lingua strana che parlava, la tonaca rossa che lo faceva inciampare, il rocchetto di pizzo che frusciava. Un orgoglio un figlio del genere, con i lineamenti misti di cinese ed europeo, esile e pallido, che il destino gli aveva affidato, proprio a lui, povero vecchio senza famiglia.
E dopo la chiesa si fermava al tempio a ringraziare gli dèi per avergli fatto la grazia di quel figlio adottivo.
Francisco era intelligente. Andava bene a scuola. Disegnava perfettamente i caratteri cinesi. Rispettava e amava il vecchio che chiamava padre.
Alla sera, l’uomo del sam-lun-ché si fermava sulla porta della scuola maschile. Lì non aveva bisogno di gridare la sua offerta. Andava a prendere Francisco, che coi libri in mano si sedeva sul seggiolino dopo aver salutato il padre. L’uomo pedalava attraverso la città, entrambi felici, verso la barca nel canneto a lato del fiume.
Alla mattina si recavano in chiesa. Il vecchio si commuoveva, in fondo alla navata, vedendo il portamento del figlio.
Ma venne il giorno in cui un’anima pia insinuò nella mente di Francisco di dover convertire il padre alla religione di Cristo. Lui, cristiano battezzato, che cantava nel coro e faceva la comunione, e il padre che frequentava il tempio, che si genufletteva davanti a Buddha e consultava il bonzo. Non andava bene. Come poteva un figlio cattolico crescere felice con un padre che adorava gli idoli?
Nella coscienza di Francisco non si era mai risvegliato un tale problema, e non fu senza riluttanza che, a chi glielo chiedeva con insistenza, promise di parlarne col padre.
Considerava tortuoso il discorso, persino un po’ irrispettoso. Il vecchio era così felice di andare al tempio durante le festività principali, di offrire cibo e bruciare incensi all’altare degli dèi! Aveva letto da qualche parte che cinquecento anni prima della venuta di Cristo in Cina già si insegnavano la Bontà e la Bellezza. Non riusciva a trovare dentro di sé, un cattolico, virtù migliori di quelle professate dal vecchio buddista.
Erano sulla strada di casa. Stava calando la sera. Il ragazzo vedeva il busto curvo del padre che pedalava davanti a lui. Non sapeva da dove cominciare. Il vecchio non aveva mai criticato la religione di Francisco, anzi, la apprezzava molto, ed era orgoglioso di vederlo nella cappella del convento mentre aiutava il sacerdote, accendeva le candele, riceveva la comunione. Perché ora lui avrebbe dovuto disprezzare i suoi dèi, dire che era tutto falso, che le offerte e le preghiere a Buddha non valevano nulla?
Arrivarono a casa in silenzio.
Il vecchio Cheong si chiedeva perché il suo ragazzo fosse così pensieroso quella sera.
Consumarono la cena in un silenzio altrettanto insolito. Si sentivano i fachis di bambù tintinnare sui bordi delle scodelle. Il vecchio gli chiese se voleva altro riso. Francisco fece cenno di no. Entrambi rimasero in silenzio a contemplare la notte e l’acqua scura. Poi Francisco parlò per citare una frase del Vangelo. Il padre si alzò in piedi. La barca beccheggiò. Alla luce della candela l’ombra del vecchio si allungava come un ponte fino alla banchina.
Alla fine, quando si erano già coricati uno accanto all’altro, sulle tavole tarlate della barca, il ragazzo, incoraggiato dalle tenebre, cominciò a parlare di religione.
Il vecchio ascoltava, attento. Amava ascoltare il figlio. Quante cose sapeva il ragazzo! Ovviamente non capiva tutto quello che diceva. Parlare di Dio, tuttavia, gli sembrava un eccellente argomento.
Francisco parlava dei misteri della sua fede, citava la Bibbia e passi della vita di Gesù.
Il sonno appesantiva le palpebre stanche del guidatore del sam-lun-ché: un sonno giusto, cullato dalle parole del figlio, parole che raccontavano di perdono, dolcezza, amore.
Il tempo passava, lasciando il posto alla luna. Una luna piena, color latte, che il ragazzo contemplava mentre discorreva, e che gli faceva venire in mente una divinità: la Madonna? Una qualche santa? Il genio della notte?… Pace in terra agli uomini di buona volontà, mormorò.
E paragonava la pace divina alla luna rotonda. Percepiva questa pace come mai prima in vita sua. E non disse più nulla.
Vestito del chiarore lunare, con gli occhi chiusi, muto al suo fianco, il padre sembrava quasi morto. Così puro, così buono! Desiderò accarezzargli le mani con delicatezza. La sua anima doveva somigliare alla faccia della luna. Religione, Dio, preghiere, alla fine non erano forse il vecchio, con la sua anima bianca come la luna e la serenità che irradiava da entrambi?
Questa dottrina, però, non gliel’aveva insegnata nessuno. Non l’aveva imparata durante le ore di catechismo né a scuola. Forse i professori e i catechisti non si erano mai accorti della luna e dell’uomo del sam-lun-ché. Lui, tuttavia, ora sapeva che era così. Fu una rivelazione, quella notte. Né cristiani, né buddisti, né taoisti, né confuciani… Solo Dio. Un dio per tutti.
Faticosamente il vecchio riaprì gli occhi, vincendo il sonno. Il figlio era silenzioso, meditabondo, certamente aveva ormai terminato il suo bel racconto. E Cheong balbettò: ― Così giovane e sai così tante cose che un vecchio fa fatica a capire! Per questo vado al tempio dopo averti lasciato alla cappella delle monache. Quante grazie devo rendere agli dèi per un figlio così!
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